Foto gentilmente messa a disposizione
03.10.11 di Vincenzo Pacelli
(pubblicato su Cronos - anno III, n.2 - aprile 2010)
In medio ramos, annosaque brachia pandit Ulmus opaca, ingens, quam sedem Somnia vulgo Vana tenere ferunt, foliisque sub omnibus haerent.
Virgilio. Eneide, Libro VI, 282-284 Virgilio, nell’Eneide, giunto all’ingresso dell’Averno, così scrive: Nel mezzo i rami, annose braccia spande un olmo cupo, immenso, dove abitano i sogni, si dice vani, che alle foglie sono appesi. La traduzione è mia, e di sicuro non è all’altezza del grande poeta romano (per questo ho voluto riportare all’inizio il testo originale) ma indubbiamente è molto suggestiva l’immagine di questo imponente albero su cui albergano i sogni dell’umanità, appesi sotto alle sue fronde. E perché Virgilio mette proprio un olmo sulla soglia del regno degli Inferi? Il mistero è presto svelato. Prima dei Romani, già i Greci avevano consacrato questa pianta a Morfeo, figlio del Sonno (Hypnos) e della Notte (Nix). Morfeo è per eccellenza la divinità dei sogni degli uomini, nei quali prende la forma (morfé in greco) delle persone o delle cose sognate. L’olmo è quindi l’albero dei sogni, del sonno, e per estensione, del sonno eterno, cioè la morte, che nella mitologia greca è Thanatos, a sua volta fratello gemello di Hypnos secondo Omero, e figlio della Notte (Nix) secondo Esiodo. In virtù del suo legame con Morfeo, essendo i sogni ispirati dalle divinità, venivano attribuiti all’olmo anche poteri oracolari, ossia la facoltà di predire eventi. Conservò queste prerogative anche nel mondo medievale, ed anzi le ampliò, in quanto grazie alle facoltà prodigiose attribuitegli dagli antichi, venne considerato, insieme alla quercia, l’albero sotto il quale amministrare la giustizia. Soprattutto in Francia, si sedevano sotto ad un olmo piantato in genere davanti alla porta del castello, i giudici del popolo, per emettere le loro sentenze in assenza di un tribunale vero e proprio[1]. Ma cosa c’entra tutta questa disquisizione sulla simbologia dell’olmo in questo articolo che dovrebbe trattare, come al solito, di più o meno amene curiosità su Vignanello? Apparentemente poco o niente, ma in realtà il nesso c’è ed è anche piuttosto intrigante. Basta tornare, come al solito, un po’ indietro nel tempo, aprire un vecchio protocollo notarile, sfogliare qualche carta e leggere... Actum in castro Julianelli in strata publica apud Ulmum iuxta ecclesiam et bona maccioni et alios fines [2] Siamo nel 1478, chi scrive è il notaio Battista di Domenico. Quella riportata è l’ultima riga di un suo atto notarile in cui ci dice esattamente dove si trovava mentre redigeva l’atto stesso. E cioè: Nel castello[3] di Giulianello[4], nella pubblica strada, presso l’olmo, vicino alla chiesa ed ai beni di Maccione e ad altri confini. Credo sia interessante notare come all’interno della frase vi siano soltanto due iniziali maiuscole: la J del nome del paese e la U di Ulmum, l’olmo. Questo scritto non ci dà grosse indicazioni, ma ci fa sapere che nel centro storico di Vignanello, alla fine del ‘400, esisteva un olmo, posto in mezzo alla strada, o meglio ancora, vicino a una chiesa e alle proprietà di un certo Maccione. Nei pressi di quest’olmo il notaio sta svolgendo le sue funzioni, in modo non troppo diverso da quegli uomini di legge del medioevo che, come accennato poco fa, si sedevano sotto agli olmi per amministrare la giustizia. L’accostamento è evidente e inevitabile. A quanto pare la tradizione dell’olmo come albero “ispiratore” ha attraversato i secoli ed è ancora ben viva. Ce lo conferma il fatto che Battista di Domenico non è affatto un caso isolato, come lui anche altri notai, che solitamente rogavano presso la loro abitazione, nelle case dei diretti interessati (specialmente per i testamenti) o in altri luoghi pubblici come la chiesa, non di rado svolgono la loro attività nei pressi dell’olmo. Circa venti anni più tardi, fra le carte di un altro notaio, stavolta è Luca di Antonio Lazzolini, si legge: Actum fuit hoc in castro Julianelli videlicet in platea iuxta et prope uulmum in dicta platea existentem iuxta bona ecclesie sancte marie Julianelli [5] Anche questo atto, come l’altro: avvenne nel castello di Giulianello, nella piazza, vicino e nei pressi dell’olmo che in detta piazza esiste, vicino ai beni di Santa Maria di Giulianello. Da notare che il nome dell'albero è scritto con due u iniziali. Ma in due atti successivi, lo stesso notaio si premura di specificare per bene dove si trova: Actum in castro Julianelli videlicet in platea subtus ulmum existentem in dicta platea iuxta murum ecclesie sancte marie de Julianello et viam publicam [6] Il Lazzolini ci spiega esattamente: nella piazza, sotto l’olmo esistente in detta piazza, vicino al muro della chiesa di Santa Maria di Giulianello e la via pubblica. E ancora: Actum in castro Julianelli videlicet in platea subtus ulmum iuxta bona ecclesie sancte marie de Julianello et viam publicam [7] Ormai non c’è più bisogno neanche di tradurla. Il notaio ribadisce che si trova proprio sotto all’olmo, posto nei pressi della chiesa di Santa Maria, ossia l’antica chiesa matrice, in una piazza, che non essendo definita in altro modo, lascia intendere che sia la piazza centrale e la più importante del paese, forse l’unica, o comunque quella che da tutti viene riconosciuta come la piazza. Fra le altre indicazioni compare sempre la via o strada pubblica, termine con il quale veniva identificato l’asse viario centrale, attuale corso Giacomo Matteotti.
Dovrebbe quindi essere piuttosto semplice raccogliere queste indicazioni e farsi un’idea su dove dovesse trovarsi quest’olmo, ma per farlo è prima necessario avere cognizione delle dimensioni e della collocazione dell’antica chiesa di Santa Maria. Quest’antica costruzione, che venne demolita agli inizi del ‘700 per fare posto alla nuova chiesa collegiata, era di dimensioni molto modeste e si estendeva nello spazio compreso fra l’attuale vicolo primo ed il campanile della chiesa attuale. Davanti aveva un chiostro ed altri edifici, che occupavano lo spazio restante fino ad arrivare approssimativamente dove oggi è la facciata della chiesa collegiata (vedi planimetria).
Quella che viene definita piazza quindi, posta nei pressi delle mura dell’antica chiesa, altro non è che il tratto di corso che si allargava (e si allarga) in corrispondenza della facciata laterale. Da questo si comprende come mai il primo atto ci dice che l’olmo si trova nella via pubblica ed i successivi invece lo collocano nella piazza. Effettivamente, osservando la planimetria i confini di queste due entità sono piuttosto vaghi ed opinabili e lo spazio molto limitato, tanto che l’olmo, che probabilmente aveva una certa mole, è anche vicino alle mura della chiesa ed alla casa di un tale Maccione.
Oltre che ai notai, l’ombra dell’olmo dava ospitalità anche ad un’altra importantissima realtà sociale dell’epoca: il consiglio generale della popolazione[8], composto dai capi famiglia, che si riuniva per prendere le decisioni più importanti. Ma sono gli atti di un altro notaio vignanellese, Francesco di Domenico Fantecchia, a fornirci ulteriori indizi ed indicazioni utili ad avere un quadro più completo: In platea Julianelli iuxta cisternam et ecclesiam [9] Actum fuit hoc in castro Julianelli In platea ulmi sita in regione medii [10] Actum Julianelli in ecclesie cadredali sancte marie castri predicti iuxta plateam comunitatis et alios fines [11] Siamo ora nel primo decennio del ‘500. La piazza viene chiamata indifferentemente piazza di Vignanello (platea Julianelli) a conferma che è la principale del paese, piazza dell’olmo (platea ulmi) identificandola proprio con l’albero, e piazza della comunità (platea comunitatis) con evidente riferimento al ruolo svolto in seno alle adunanze. Dal primo degli ultimi tre atti citati veniamo a conoscenza dell’esistenza di una cisterna, posta nella piazza stessa. Il secondo atto conferma che ci troviamo nel rione di mezzo (in regione medii), vale a dire sulla sommità centrale del colle, né a sole (regio solis, versante sud), né a frigido (regio frigoris, versante nord). Il terzo atto, infine, si svolge all’interno della chiesa di Santa Maria, che in alcuni casi viene chiamata chiesa matrice (ecclesia matrix), mentre in altri, come questo, viene definita cattedrale (in ecclesie cadredali), vicina alla piazza della comunità. Considerato che la chiesa matrice, di stile romanico, era molto meno elevata della attuale e che anche le altre abitazioni non dovevano essere troppo alte, risulta verosimile immaginare che l’olmo della piazza fosse parte integrante e dominante del panorama (si potrebbe dire, della skyline) di Vignanello nel ‘500. Al centro del colle, sopra i tetti delle casupole medievali, poco distante dall’attuale castello Ruspoli (allora Palazzo di residenza della signora Ortensia Farnese) svettava l’olmo con le sue fronde: un albero di cui ignoriamo l’età, non avendo alcuna informazione sulla sua data di nascita, ma del quale conosciamo l’esatto istante di morte, come vedremo tra poco... Ma oltre a quanto già esposto c’è un altro, direi ottimo, motivo che lega questa pianta a Vignanello. Sempre fin dall’antichità, come è testimoniato da moltissimi autori greci e romani, fra cui il Columella (I secolo d.C.), l’olmo veniva usato per sostenere la vite, tanto che Catullo definisce quest’ultima “vedova” quando non si appoggia a quest’albero. Ed anche questa consuetudine è proseguita nel tempo, tanto che ne abbiamo inequivocabile conferma in un documento notarile vignanellese degli inizi del ‘600 in cui il feudatario, nello stabilire le regole di un contratto con due mezzadri per la gestione di una vigna di sua proprietà, richiede: [...] che debbiano rimettere tutti li arbori da viti che mancano, et in tutti i lochi dove si possono piantare, e stare à giudicio di homini Periti con farli le fosse larghe, e cupe a sodisfattione del detto Illustrissimo Signore con metterci olmi, ò oppij, e le sue viti e che a tutti li arbori tanto à quelli, che si piantaranno, quanto alli vecchi vi sia almanco dui viti per ciasche arboro [...] [12] Si parla degli alberi che devono sostenere le viti, e l’ordine è perentorio: olmi o pioppi (oppij). Quindi ancora quattro secoli fa, a Vignanello come nell’antica Roma, si usavano queste piante per sostenere le viti: almeno (almanco) due per ogni albero (arboro). Probabilmente per questo, ancora oggi, i vigneti che da allora hanno cambiato completamente aspetto, vengono chiamati arboreti, in ricordo di quelle antiche distese di olmi e pioppi con i tronchi avvolti da due o più viti rampicanti che salivano fin sui rami, dai quali in tarda estate pendevano i grappoli d’uva. Si amplia quindi il legame simbolico dell’olmo con Vignanello. Oltre che punto di riferimento per i notai e per le adunate del consiglio generale della popolazione, ombra benigna sotto cui discutere e deliberare, esso era il sostegno concreto e tangibile della principale fonte di sostentamento, fulcro dell’economia paesana da tempi immemorabili: la vite e le vigne che producevano quel vino per cui Vignanello divenne così famoso a Roma, tanto da esser ricordato ancora nel secolo scorso, quando lo troviamo elogiato nelle poesie di Trilussa e del Belli al pari dell’Orvieto e dell’Est Est Est[13]. C’è inoltre un terzo contributo non da poco. Le foglie dell’olmo e la sua corteccia, secondo Plinio, avevano la proprietà di far coagulare e cicatrizzare le ferite, mentre il liquido dolce e vischioso che esce dalle galle provocate sulle sue foglie dalle punture di insetti, veniva usato per curare gli occhi e pulire le piaghe. Anche di questo è rimasta memoria, almeno fino a non troppi anni fa, a Vignanello.[14] Gli ultimi documenti in cui l’olmo viene citato sono della metà del ‘500. In uno in particolare, il notaio inserisce nel testo, scritto sempre rigorosamente in lingua latina, l’espressione in volgare con cui veniva chiamata la piazza: Actum fuit in platea qua dicitur la piaza de lolmo iuxta bona maccionis mariotti et alios fines [15] In italiano: Atto nella piazza che è detta la piaza de l’olmo, vicino ai beni di Maccione di Mariotto e ad altri confini. Questo atto è del 1530 e l’esistenza dell’olmo è testimoniata ancora diversi anni più tardi, nel 1546: ...iuxta platea ulmi videlicet apud et ante dictum ulmum... [16] Vicino alla piazza dell’olmo, ossia presso e davanti al detto olmo. Ma poco tempo dopo accade l’irreparabile. È l’anno del Signore 1553 quando i Vignanellesi, esasperati dalle angherie del conte Ranuccio Baglioni, marito di Ortensia Farnese, signora e padrona di Vignanello, organizzano una congiura. Il 19 settembre, alle prime ore dell’alba, pochi colpi di archibugio uccidono il conte Ranuccio e Giovanni Maria, suo servitore. I Vignanellesi esultano per la morte del tiranno, infieriscono sul suo corpo, brindano e banchettano accolti nelle case dei compaesani che festeggiano l’evento liberatorio, ben sapendo di avere l’appoggio della signora Ortensia, anch’essa esausta per le prepotenze del marito. E infatti... il 13 ottobre inizia il processo presso il tribunale del Governatore di Roma! Oltre cento Vignanellesi saranno inquisiti, tutti i congiurati verranno interrogati, torturati, alcuni incarcerati. Il 16 ottobre, Cesare di Ser Biagio, detto Sardina, confessa di aver partecipato all’uccisione e alla deturpazione del cadavere del conte, dagli interrogatori sappiano che cercherà inutilmente di difendersi, sostenendo di non saper dire se, mentre infieriva, il conte era già morto o ancora vivo. Il 21 ottobre, Cesare, considerato uno degli autori delle azioni più efferate, sarà squartato ed appeso sull’olmo della piazza. Proprio su quell’olmo che con ogni probabilità aveva ascoltato, complice, le riunioni dei congiurati mentre si riparavano sotto la sua ombra, o li aveva visti entrare in chiesa, dove si erano svolte le assemblee, sotto la guida di prete Medio, rettore della cattedrale, ottimo amico di Ortensia Farnese, nonché fratello dello stesso Cesare.[17] In una breve memoria, appuntata dal notaio Domenico della Felice, veniamo a sapere quello che accadde pochi giorni dopo... Adì 6 de Novembre 1553 cioè el di de Sancto Leonardo alle 24 hore fu tagliato dal piedi l’olmo della piaza [18]. Le 24 ore non è la mezzanotte, nel conteggio delle ore in uso all’epoca corrispondono approssimativamente al tramonto: l’ultimo tramonto visto dall’olmo della piazza. Il notaio non ci dice perché venne tagliato, ma forse non è troppo lontano dalla verità vedere in questo atto un gesto brutale ad opera dei soldati del conte, quasi uno sfregio destinato a privare per sempre la popolazione vignanellese di quello che era un punto di riferimento, un ritrovo, un luogo sacro, forse non meno della vicina chiesa. Oppure furono gli stessi Vignanellesi a tagliarlo per non conservare il ricordo del compaesano impiccato su quell'albero che ormai aveva irreparabilmente perso la sua sacralità e quindi il suo ruolo di simbolo della popolazione? Questo non lo sapremo mai. Il 6 novembre 1553 è la data di morte dell’olmo, la fine di un’epoca: i notai non potranno più sedersi sotto alle sue fronde, il consiglio della comunità troverà un’altra sede e... gli dei non ispireranno più le decisioni dei poveri vassalli. Niente è rimasto nella memoria popolare di questa nobile pianta, tanto che i Vignanellesi di oggi sono soliti nominare l’olmo soltanto in un detto paesano che di certo non celebra l’importanza e la dignità che questo albero ha avuto nella storia del paese. Quando si vuole biasimare qualcuno, sottolineando che è un buono a nulla, si dice: Quello è ccomme ll’ormo: nun è bbono né pp’i’ffòco e né pp’i’fforno. Sarebbe a dire: quello è come l’olmo, non è adatto né per fare fuoco, né per scaldare il forno. Una rima, neanche troppo ben riuscita, che si limita a deprecare le scarse qualità dell’olmo come legna da ardere, ma che dimentica completamente il suo ruolo fondamentale, svolto onoratamente per secoli: sostegno per le piante di vite, cicatrizzante per le ferite e ombreggiato luogo di riunione per i rappresentanti del popolo vignanellese, quando, ancora memore di antichissime tradizioni, confidava nell’intervento ispiratore dell’albero sacro a Morfeo. [1] Alfredo Cattabiani. Florario. Mondadori. Milano, 1997. p. 671-673 [2] Archivio di Stato di Viterbo. Archivio notarile di Vignanello (ASVit - NVign). Busta 3, f. 21v (1478) [3] Con il termine latino castrum, traducibile letteralmente con castello, non si intende un edificio, ma tutto il centro abitato delimitato dalle mura perimetrali, che vengono chiamate appunto: mura castellane. [4] Giulianello (in latino Julianellum) è il nome originario del paese, distorto in più forme (Giuglianello, Giugnanello, Iugnanello, Ignanello) ed infine divenuto Vignanello. [5] ASVit - NVign. Busta 10, f. 94r (1497) [6] ASVit - NVign. Busta 10, f. 121v (1500) [7] ASVit - NVign. Busta 10, f. 180r (1505) [8] Carmine Iuozzo. Feudatari e vassalli a Vignanello. Agnesotti. Viterbo, 2003. p. 32, n. 35 [9] ASVit - NVign. Busta 8, f. 43r (1506) [10] ASVit - NVign. Busta 8, f. 101r (1508) [11] ASVit - NVign. Busta 8, f. 152v (1509) [12] ASVit - NVign. Busta 146, f. 32v (1620) [13] G. G. Belli. Er vino (1831). [14] Ne ho conferma da mio padre, che mi ha raccontato di come, quando da bambino in campagna gli capitava di ferirsi, suo nonno andava alla ricerca delle galle dell’olmo per strofinarle sulla pelle allo scopo di favorire la cicatrizzazione. [15] ASVit - NVign. Busta 27, f. 25v (1530) [16] ASVit - NVign. Busta 30, f. 192r (1546) [17] Per la cronaca completa ed esauriente della rivolta del 1553: Carmine Iuozzo. Feudatari e Vassalli a Vignanello. Agnesotti. Viterbo, 2003. pp. 39-74 [18] ASVit. - NVign. Busta 31, f. s. n. (1553)
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