31.01.10
Un ballo in maschera: Lino e Vitulia
di Lillo Pacelli
Lino, meglio conosciuto a Vignanello come Linomèo (scritto tutto attaccato perchè così veniva pronunciato) mi fa venire in mente una “regola-usanza” del nostro dialetto.
Spesso gli “antichi” Vignanellesi dell’Ottocento, ma sicuramente anche i loro antenati, aggiungevano come suffisso ai nomi propri o comuni di persone di famiglia, quasi a significare o a rafforzare la parentela e la vicinanza affettiva, il pronome possessivo “mio” e “mia”, che in versione dialettale diventano
mèo e mèa, -mo e –ma.
Erano conosciuti da tutti: Lino, ‘Ntonio, Pèppa, Giacinta, come Linomèo, ‘Ntoniomèo, ‘a Peppamèa e ‘a Giacintamèa.
Come pure si sentivano spesso nel linguaggio comune giornaliero: mòglima, marìtimo, fìglimo, fìglima, fràtimo, sòrima, nipòtimo/a, cuggìnimo/a, quinàtimo/a (mio/a cognato/a).
Nel vignanellese attuale, da molti anni purgato e bonificato dalla sempre più diffusa istruzione superiore e dai mass-media, queste forme sono del tutto scomparse ed è rimasto soltanto qualche anziano buontempone che le sfodera ancora a volte per folklore o per vanità.
Avevo iniziato per parlare di Lino e, non l’ho ancora minzonata, sua moglie Vitulia, per riportare un aneddoto di cui furono entrambi protagonisti, che ho sentito raccontare dai “grandi” più volte in una delle tante serate del già glorioso Carnevale vignanellese di
alcuni anni fa.
Lino faceva parte della Banda Musicale paesana (de ‘a Musica de
Vignanello) e suonava un "ottone". Una sera del periodo di Carnevale, dopocena,
"si cambiò" e disse alla moglie che doveva uscire perchè doveva andare a fare
“ ‘e prove co’ ‘a Musica”.
Vitulia sapeva però che quella sera, oltre alle prove della Banda, c’era anche un “ballo in maschera” in una saletta da ballo del paese.
Conoscendo bene i gusti e l’inclinazione del marito, pensò che in quella saletta, Lino, una capatina ce l’avrebbe fatta. Perciò decise e si attivò per andare a dare una “guardatina” anche lei.
Si fece prestare da una vicina un abito di una delle sue figlie, si vestì, si acconciò per bene e, coprendosi con cura e buon gusto il viso, qualche ora più tardi del marito, uscì di casa anche lei ed andò nella saletta in questione.
Arrivò che questa era gremita di persone mascherate e non. Si lanciò nella musica, appassionata com’era del ballo, anche lei non meno di Linomèo, e non tardò ad incrociarsi con il
suo Lino.
Questi, dopo qualche suonata, la richiese per il ballo successivo e lei accettò. Era un bel valzer e c’era da “girare”! Lino le mise il braccio destro attorno alla vita, dietro alle spalle, per “portarla”. Vitulia, pur se attratta, cercò e vi riuscì a mantenere le distanze, mentre Lino abbozzo qualche audace approccio, andato naturalmente a vuoto.
Il primo ballo finì e il cavaliere, come era consuetudine, invitò la dama a prendere qualcosa al buffet. Vitulia si dissetò con un bicchiere di gassosa e Lino bevve un bicchierino di Marsala.
L’orchestra nel frattempo aveva iniziato un “tango argentino”: si lanciarono di nuovo nel vortice.
Passo dopo passo, giro dopo giro, Lino ballando “andava” sempre meglio, perchè con la occasionale dama “si prendeva” benissimo, come se ci avesse ballato sempre. Così affiatati e presi l’uno per l’altra, continuarono, tra un ballo e una sosta al buffet, per un’oretta circa.
Si avvicinava la mezzanotte e, come nelle favole, l’effetto della magia a quell’ora si esaurisce.
Allo scoccare delle 12.00, la direzione della sala, come prescriveva la legge e l’usanza paesana, invitava tutte le persone mascherate ancora presenti in sala, a scoprire il viso per farsi riconoscere.
Vitulia non aspetto l’annuncio dell’invito. Qualche momento prima, sgattaiolò tra le persone, sfuggì alla vista di Lino e corse a casa.
Si svestì, nascondendo naturalmente con cura “l’abito di scena” e si mise a letto, fingendosi la “bella addormentata”.
Dopo non molto rientrò il marito. Vitulia fece finta di svegliarsi di soprassalto e chiese che ora
era: «Vitù, steo a fà piano piano pe’ nu svegliatte, però m’ha’ sentito lostesso. Stasera ‘e prove so’ ‘nnate male! ‘Emo provato pe’ chissà quante vorde “Amami Alfredo” da ‘a Traviata de Verdi. C’era ‘gni vorda, sempre chiduno che ‘ttacchéa prima o smettéa doppo che ‘ea dato i’ zsegnale i’ mmaèstro. So’ stracco morto e ci ho pure sonno! Dormi, dormi Vitu’! Stasera me ddormo subbito. Dimattina ho da ‘nna a bbuttà giù sett’otto propaggine e, co’ ‘a tera rosciola che nun se stacche da ‘a vanga, là a Ponzano c’è da sderenasse!».
Lino si spogliò, si mise a letto e, fermo fermo, fece finta di dormire pensando però alla simpatica mascherina con la quale aveva danzato per gran parte della serata. Chissà
chi era e quale faccia avrà avuto! E pensava, e gli pareva che, ancora adesso, sentiva il suo profumo e il suo calore!
Con queste due piacevoli ed inspiegabili sensazioni si addormentò.
Al mattino, presto, Lino andò “fora a Ponzano”. Vitulia si alzò più tardi.
Nel riporre nel credenzone i “vestiti bboni” del marito, senza malizia, sbirciò nel portafoglio, ma già lo sapeva, mancavano molte lire che il
suo Lino, in sua compagnia aveva mangiato e bevuto al buffet la sera precedente, ma...
“semel in anno licet insanire” e fese una risatina.
Dell’avventura ne uscirono a parlare per caso molti anni dopo ed entrambi si fecero un bel po’ di risate e qualche rispettivo e piccante, ma riservato, pensierino sui “bei tempi ormai andati”.
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