14.08.12
La mosca di Barak Obama e tante altre (mosche)
 - fine luglio 2009 -
di Lillo Pacelli

Tutti i notiziari televisivi e i telegiornali di alcune settimane fa, mi sembra tra la fine di giugno e i primi di luglio, di quest’anno 2009, hanno più volte mandato in onda le immagini del neo-presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, che, durante una conversazione, mentre stava parlando con un suo interlocutore, essendo infastidito da una mosca che gli ronzava intorno, ripetutamente con le mani tentava di scacciarla e di tenerla a distanza.

Per qualche attimo quindi, la mosca, ha attirato l’attenzione dei telespettatori più del Presidente e del contenuto del suo dire. Un piccolo insetto da nulla, ha calamitato l’interesse di migliaia se non milioni di telespettatori.

Io, come i tanti già citati, ne sono stato coinvolto ma, sarà forse soltanto una mia peculiarità, spesso mi capita che, osservando una scena, una persona, un animale o un oggetto qualsiasi, da lì comincio, senza accorgermi, a vagare lontano nel tempo e nello spazio e mi tornano in mente le più disparate esperienze, i vissuti lontani, le letture, gli aneddoti o altro che in qualche modo hanno attinenza ed hanno a che fare con l’immagine che me li ha richiamati alla memoria.

La mosca in oggetto, me ne ha ricordate alcune del passato remoto ed altre (sempre mosche), tante, tantissime che vivevano intorno a noi e con noi, a nugoli, a sciami , a migliaia, a milioni, fino agli anni della mia fanciullezza, adolescenza e giovinezza, grosso modo fino agli anni belli e vivibili a misura d’uomo, delle Olimpiadi di Roma del 1960. Irripetibili sotto ogni punto di vista.

Cominciamo dalle più lontane che vengono in mente, ovviamente sempre mosche.

La prima ha a che fare con uno dei nostri più insigni pittori del passato: Giotto. Questi, da ragazzo, stava a bottega dal grande Cimabue per imparare l’arte del dipingere.

Un giorno, dovendo il maestro recarsi lontano dalla sua bottega per un impegno di lavoro, disse all’allievo di completare lo sfondo di un suo dipinto. Giotto, diligentemente, lo portò a termine prima che fosse ora di andar via da bottega. Per occupare il tempo o forse per fare uno scherzo al maestro, su una parte dipinta quasi tutta bianca e molto luminosa del quadro, dipinse una mosca come se stesse posata lì sulla tela. Gli venne così bene tanto da sembrare vera.

Al mattino seguente, Cimabue, appena entrato in bottega andò a vedere come Giotto aveva completato il suo dipinto. Dopo averlo esaminato attentamente lo trovò molto ben fatto, ma prima di allontanarsi allungò il braccio e, con la mano aperta, lo mosse nel gesto molto comune che ancora noi (e Obama) oggi facciamo quando vogliamo scacciare una mosca, accompagnando magari il gesto con un imperioso: “Sciò”.

Cimabue, vedendo che la mosca non se ne andava, ripeté il movimento, poi si accostò al suo lavoro e, con compiaciuta meraviglia, quando vide che la mosca era dipinta, chiamò Giotto e si complimentò con lui.

Altre, tante mosche, fanno capolino e ronzano intorno ai personaggi, in un racconto di Franco Sacchetti, novelliere toscano, come il Boccaccio, del 1300.

In una delle sue trecento spassose novelle, tutte un po’ buffe e divertenti, narra di come un furbo imbroglione riuscì ad ingannare ed a gabbare un ingenuo avventore di una osteria, nella quale entrambi si erano fermati a pranzo, uno di fronte all’altro allo stesso tavolo.

Al termine del pasto il nostro uomo, che chiameremo Agnolo da Prato, propose allo sprovveduto dirimpettaio del tavolo, un gioco: ciascuno di loro doveva posare davanti a sé una moneta; le avrebbe vinte entrambe il proprietario della moneta sulla quale si sarebbe posata, prima che sull’altra, una delle innumerevoli mosche che volavano intorno a loro ed ai vari tavoli.

Giocarono più volte , con fasi alterne. Ad un certo punto del gioco però, la vittoria cominciò ad andare a senso unico e sempre a favore di Agnolo, poiché le mosche andavano a posarsi infallibilmente sulle monete che egli posava davanti a sé. L’avventore insistette testardamente a giocare, sperando in una rivincita, non subodorando che sotto ci potesse essere un trucco, fino a che non ebbe capovolto il suo sacchettino di monete trovandolo completamente vuoto e, buon per lui che aveva, prima di cominciare a giocare, pagato il conto del pranzo all’oste.

Come aveva fatto Agnolo da Prato per poter, ad un certo punto, tranquillamente vincere sempre? Stando seduto a tavola su di una panca, si era nascosto tra le cosce una pera ben matura, (da noi diremmo strafatta), ogni volta che doveva posizionare davanti a sé la moneta, la intingeva, prima, nella polpa dolce della pera e il gioco era fatto: la prima mosca che si trovava a volare nei pressi del tavolo, infallibilmente, attratta dall’odore dello zucchero, andava a posarsi sulla moneta di Agnolo.

Un’altra mosca, anzi ,questa volta si tratta di un bel moscone, riguarda un altro personaggio della nostra letteratura: Bertoldo che, insieme a Bertoldino e Cacasenno, è il protagonista di tre buffi romanzetti.

Bertoldo, rozzo contadino, ma saggio, furbo ed arguto, proprio per queste sue doti era stato chiamato da Alboino, re dei Longobardi, alla sua corte perché lo consigliasse, gli tirasse su il morale e lo rallegrasse con le sue facezie e la sua semplice parlantina, nelle giornate in cui era di cattivo umore.

Nei caldi pomeriggi estivi, il re era solito, dopo i lauti pranzi, schiacciare un pisolino che però gli veniva frequentemente disturbato e spesso interrotto dalle numerosissime mosche, che anche a quei tempi c’erano, sicuramente più di adesso, le quali gli andavano a passeggiare su qualche parte del corpo, facendogli il solletico e svegliandolo.

Un giorno Alboino chiamò Bertoldo e gli ordinò di vigilare sul suo sonno, non solo scacciando i fastidiosi insetti che si posavano sul suo corpo, ma schiacciandoli con le sue grosse mani o con qualsiasi altro mezzo. Si accomodò all’ombra di un grosso albero del suo giardino su una comoda poltrona ed in breve si appisolò sotto lo sguardo vigile del suo custode.

Non tardarono ad arrivare le mosche che tentavano di posarsi ora qua ora là sul corpo del re, ma sempre scacciate dal fedele servitore. C’era però, tra le tante mosche, un bel moscone che ronzava sempre più vicino alla faccia del re, ma non riusciva mai a posarvisi perché Bertoldo faceva buona guardia e con le sue manone lo faceva allontanare. Ad un certo punto,allentatasi per un attimo la vigilanza per un accenno di appisolamento anche di Bertoldo, il moscone si posò sui baffi ed era già pronto a saltare sul naso del re, che a me piace immaginare panciuto e rubicondo.

Bertoldo si riebbe dal momentaneo torpore proprio in quell’istante. Seduto com’era alla destra di Alboino, con la sua manona assestò un potente ceffone sul naso del re proprio nel momento in cui il moscone stava iniziando la sua passeggiata. Lo fece secco, ma altrettanto fece di Sua Maestà che, svegliatosi di soprassalto, cominciò ad urlare per il dolore e ad imprecare contro il rozzo villano, accusandolo di “oltraggio e lesa maestà” e, per punizione, lo fece portare in prigione. Prima di notte però, per intercessione di Marcolfa, la moglie di Bertoldo, lo fece rimettere in libertà perché fu proprio questa a ricordargli che era stato lui, il re personalmente, a dare al suo servitore il perentorio ordine di scacciare o schiacciare con qualsiasi mezzo ogni insetto che si fosse posato sulla sua persona.

Bertoldo, fedele esecutore degli ordini del sovrano fu riammesso a corte e lì rimase fino alla fine dei suoi giorni, quando “morì con aspri duoli, per non poter mangiar rape e fagiuoli”.

La vita e soprattutto i pasti di corte, sofisticati e succulenti, erano troppo in contrasto con le sue origini e le sue abitudini modeste e frugali di contadino.

Dopo queste tre lunghe divagazioni, come sempre affiorate tra i miei tanti ricordi di scuola, sia da studente che da maestro, veniamo un po’ a parlare (sarebbe ora!) delle  mosche nostrane, quelle, diciamo la verità, poche che vediamo volare ancora intorno a noi e che (ma siamo davvero incontentabili), ci danno tuttavia fastidio.

Eccoci ora al mio consueto: “Me ricordo quell’anno…”. Erano gli anni del secondo dopoguerra del ‘900, tra la seconda metà degli anni Quaranta, fino a quasi tutti i Cinquanta.

Di mosche, allora, ce n’erano in circolazione a nuvole, a migliaia, a milioni, a miliardi, chissà quanti! Senza paura di esagerare, potremmo dire, non rischiando di cadere in errore, che ne volavano a quintali. Non c’era luogo di paese, città, campagna, mare, laghi, colline e monti, che non ne fosse popolato, anzi, invaso. Di antidoti ce n’erano pochissimi e tutti molto semplici.

Il primo alla portata di tutti erano le mani accompagnate dai vari “sciò” o simili espressioni, pronunciate in tutti i dialetti, ma non risolvevano il problema. C’erano poi vari tipi di ammazza mosche più o meno funzionali e variamente resistenti al continuo uso che se ne faceva. I più diffusi consistevano in una semplicissima struttura di un paio di fili metallici attorcigliati, lunga una trentina-quaranta centimetri, terminante con un rettangolino, grossomodo da cm 10 per 15, sempre di fil di ferro attorcigliato, entro il quale era applicata ben tesa una fitta, leggera e resistente retina metallica. Si impugnava l’attrezzo, si prendeva di mira una mosca, e non c’era che l’imbarazzo della scelta, e con un colpo ben assestato la si spiaccicava su qualsiasi posto stesse posata, senza problemi di alcun genere, primo fra tutti quello igienico.

Di questi arnesi se ne possono trovare ancora in vendita,ma ora sono di materiale sintetico, in qualche emporio, ma sono ormai fondi di magazzino e del tutto desueti, poiché vedere una mosca spiaccicata su un vetro, su un muro o su un qualsiasi angolo di casa, fa arricciare il naso ai più. Tuttavia anche se l’ammazzamosche faceva parte dell’arredo di ogni abitazione, lasciava il problema del tutto irrisolto.

Un sistema che risolveva in parte il fastidio di convivere con le mosche, ma solo per qualche ora, era l’uso di un asciugamano. Ogni massaia o qualche altro della famiglia, per poter stare un po’ tranquilli durante i pasti e nelle ore del sonnellino pomeridiano estivo, (diciamola pure con il nostro dialetto : “pe’ sta’ un po’ in santa pace”) facevano così: chiudevano la porta di casa, che di solito, allora, si teneva sempre spalancata e co’ ’a chiave su, specialmente in estate, poi in una stanza alla volta, chiudevano la porta, spalancavano la finestra e impugnando uno per mano due angoli dell’asciugamano, lo agitavano e lo sventolavano, spingendo verso l’esterno gli sciami di mosche, fino a quando non vedevano che tutte erano uscite dalla finestra che subito veniva richiusa. Poi eseguivano la stessa operazione in tutte le altre stanze.

Tale lavoro di bonifica, però. non crediate che fosse molto lungo, poiché le stanze o vani che ogni famiglia aveva a disposizione, nella maggioranza dei casi, erano: camera, cucina e qualche altra stanzetta o piccolo vano. Teniamo inoltre presente che fino agli anni dell’immediato ultimo dopoguerra, la maggior parte delle abitazioni non era dotata di servizi igienici. Soltanto qualche anno più tardi cominciarono a comparire i gabinetti , ricavati nella maggioranza dei casi, chiudendo una piccola parte di qualche balcone, quindi all’esterno delle mura perimetrali della casa.

Altro rimedio per tenere lontani i fastidiosi insetti dagli ambienti abitati, era l’applicazione di una specie di zanzariera che però costava, non molto, ma tutto è relativo, e i soldi da spendere ce n’erano pochi. Queste protezioni le costruivano i falegnami con quattro assicelle di legno, con inchiodata tutt’intorno ad esse la stessa retina metallica che abbiamo già vista utilizzata per l’ammazza mosche. Chi poteva permetterselo, questo rimedio, lo faceva applicare alla finestra della cucina, soprattutto per ovvii motivi igienici e perché era il luogo in cui abitualmente si consumavano i pasti e si stava più frequentemente a fare conversazione sia tra familiari che possibili amici in visita di cortesia.

Altro palliativo molto diffuso ed alla portata un po’ di tutti, anche se aveva un certo costo seppur non eccessivo, era la carta moschicida. La vendevano tutti i negozi. Era una striscia di carta arrotolata a spirale, entro un involucro di cartoncino che era simile nella lunghezza e nello spessore, ad una cartuccia da caccia. Dall’involucro fuoriusciva un piccolo cappio di corda che si agganciava ad un chiodo infisso ad una trave o ad un travicello del soffitto (un aguitello o aquitello ficcato da un travo o da un limarello de i’ zsoffitto, perchè erono poche ‘e case che nun c’eno i ttravi e llimarelli a vista). Dopo aver agganciato il piccolo cappio, si tirava con una mano l’involucro di cartoncino dal quale fuoriusciva, appunto a spirale come una molla e restava penzoloni, una striscia color marrone scuro di carta lucida e appiccicosa, che nel giro di pochi giorni aveva ogni millimetro quadrato della sua superficie, ricoperto di mosche incollate e, naturalmente, morte. A questo punto, poiché era perfettamente inutile tenerla lì penzoloni,doveva essere buttata via e, uffa! c’era da rispendere i soldi per una nuova cartuccia.

Un po’ di sollievo dalla presenza di mosche in casa , era dato da un altro accorgimento, che poteva essere messo in atto solo nelle stanze che avevano le finestre con le persiane esterne o le imposte interne (gli scuri). Si lasciava aperto uno spiraglio piccolissimo della finestra dopo aver ben chiuso le persiane o le imposte. Le mosche lentamente si trasferivano all’esterno, attratte dalla luce, o da sole, ma ci voleva più tempo, o sospinte dallo sventolio de un panno ‘i ppiatti o de nu sciuttamano.

Un altro bel problema di difficile soluzione erano i danni (ho usato forse una parola un po’ grossa!) causati dalle mosche durante il loro stazionamento in casa durante le ore di luce, quando erano sazie e nelle notti. Si posavano, si riposavano, si accoppiavano e lasciavano i loro escrementi, del tutto simili ai puntini neri che noi nello scrivere mettiamo “sulle i”, un po’ dappertutto. Preferivano le superfici dei vetri delle finestre, degli specchi, delle lampadine, dei globi delle plafoniere e dei lampadari. Questi erano i siti per il giorno. Per la notte invece, avevano altre preferenze. “Ma va’ a ppensa un po’, che pure ‘e mosche, nel loro piccolo avessero gradimenti particolari!”

I siti su cui si posavano e lasciavano i loro puntini, erano di solito i fili conduttori della corrente elettrica e i fili che sostenevano sospesi dal soffitto i lampadari e le lampade tutte. Li descrivo, i fili particolari di allora, per coloro che non l’hanno mai visti, perché ora non se ne vedono più , sia nelle case che in nessun altro locale. Correvano lungo le pareti e sui soffitti, erano esterni ad essi ed erano ancorati agli isolatori bianchi di porcellana, inchiodati, questi, alle pareti  ed alle travi del soffitto, alla distanza di circa un metro l’uno dall’altro.

Adesso il fili corrono lungo le pareti e sui soffitti tutti intonacati e senza più le travi di legno in bella vista, sotto traccia dentro tubi neri, i corrugati, murati sotto l’intonaco, o fuori traccia, ma non visibili perché coperti da canalette di plastica. Il cosiddetto, cordoncino elettrico di allora, era costituito da due soli fili, perché non c’era il terzo filo dello scarico a terra; ed erano attorcigliati l’uno all’altro. I fili conduttori della corrente, come ora di rame, erano avvolti da un rivestimento gommoso, che all’esterno era ricoperto da un leggero tessuto di stoffa, forse di cotone.

Questi fili, così ricoperti, inizialmente erano bianchi, o al massimo color avorio o panna,ma a qualche mese dalla posa in opera erano costellati di puntini neri, ma tanti, tantissimi, da nascondere allo sguardo anche il più piccolo millimetro quadrato del tessuto originario. E qui torniamo ai costi! Cambiarli costava... e non si faceva, per cui restavano lì in saecula saeculorum, o venivano ricoperti di tinta in occasione di una ritinteggiatura delle pareti, per qualche evento importante : la cresima, la prima comunione o il matrimonio di qualche figlio. Ma, affaccendati come tutti si era, per l’occasione, non si aveva neppure il tempo di ammirare i fili quasi riportati a nuovo, che alla fine dell’estate, erano già tornati neri come prima. più di prima.

Passata la Guerra, sempre per quanto riguarda la lotta alle mosche, qualche miglioramento ci fu. Con l’arrivo degli alleati, arrivò anche il D.D.T., sigla del composto chimico: Dicloro-Difenil-Tricloroetano. Era un potentissimo insetticida (rivelatosi poi cancerogeno ed in seguito messo al bando) che ci liberò da mosche, pulci, cimici, pidocchi, acari ed altri parassiti.

Cominciò quindi la lotta chimica contro le mosche con vari prodotti, tutti però a base di D.D.T. Tali prodotti venivano venduti nelle botteghe, allora chiamate drogherie (!!) o empori, ma anche in negozi di alimentari (!) che allora vendevano un po’ di tutto: dalla pasta al pane (poco perché ancora quasi tutte le madri di famiglia se lo facevano in casa), dalle alici alla conserva di pomodoro, dal sapone a pezzi alla varechina, dai quaderni all’ago, dal baccalà ai chiodi, dal cemento al manico pe’ i’ ppicchione, dal pepe ai liquori e… l’elenco potrebbe essere ancora più lungo, variegato e sorprendente.

Ma parlavamo del diddittì, detto così comunemente da tutti, dagli analfabeti ai più dotti, ma chiamato anche con un nome diverso: i’ flitt. Se ne comprava in piccole quantità e noi bambini venivamo mandati a comperarlo qualche decina di lire, con bottigliette o recipienti piccoli, all’incirca, intorno al quarto di litro.

Si utilizzava nebulizzandolo nelle stanze ed emanava un odore sgradevole anche a distanza di qualche ora. L’attrezzo per spanderlo nell’aria era: ‘a machinetta ‘e i’ fflitt. Era questa composta da due elementi, saldati l’uno all’altro: un contenitore cilindrico, come un barattolino di latta, messo orizzontalmente, della capacità di un piccolo bicchiere da tavola, con un’apertura, chiusa da un tappo con l’impanatura, per metterci dentro l’insetticida. Da questo, barattolino, usciva un tubicino metallico che pescava il liquido contenuto all’interno ed era simile, in tutto, ad un pezzetto di bucatino, di quelli che si mangiano all’amatriciana. A questo contenitore era saldato un altro cilindro anch’esso di latta, simile nella forma e nel funzionamento, compreso il pomello e l’asta metallica che spingeva all’interno uno stantuffo, ad una pompa per gonfiare le ruote delle biciclette, al termine del quale (cilindro), c’era un piccolo foro dal quale usciva l’aria compressa dallo stantuffo. L’aria uscendo a forte velocità dal piccolo foro e sfiorando il bordo del bucatino, risucchiava dal barattolino-contenitore il flitt e lo nebulizzava nell’aria.

Ebbero e con ragione, un grande successo entrambi: il flitt e la macchinetta per nebulizzarlo. Penso che non ci siano state abitazioni e persone che ne siano state sprovviste. Ricordo ancora, e molti credo come me, la propaganda che allora se ne faceva. In mancanza di spot radiofonici o, meglio, televisivi, erano disegni e inserzioni sui giornali più diffusi o poster, addirittura metallici, che ritraevano un diavolo, tutto vestito di rosso, con tanto di corna, coda e forcone, in espressione arcigna, cattiva, diabolica insomma, ma soddisfatto, che impugnava una machinetta ‘e i’ flitt, dalla quale usciva una nuvola di  diddittì, al cui interno roteavano, naturalmente morti, disegnati nelle più disparate posizioni, mosche, mosconi, moscerini, zanzare  ed altri insetti. Mi par di ricordare, ma potrei essere inesatto,che il prodotto reclamizzato si chiamasse: “Superfaust”.
(Ovviamente le immagini le ho trovate io sul web dopo che Lillo me le ha citate. Questo ad onore della sua memoria! ndr)

Tutti questi accorgimenti, soluzioni, rimedi, chiamiamoli come vogliamo, erano i modi per difendersi o limitare il disagio dei privati cittadini.

A questa calamità, che aveva pesanti risvolti soprattutto per quanto riguardava la salute e l’igiene pubblica, non furono insensibili né stettero con le mani in mano, le Amministrazioni Comunali che, insieme a quelle di rango istituzionale più elevato, erano le più vicine alle aspettative delle popolazioni che toccavano con mano la realtà di ogni giorno. Adottarono infatti su vasta scala i rimedi dei privati.

Ricordo che periodicamente i netturbini (‘i scopini) passavano per le strade e per tutti i vicoli (il nucleo abitato del paese era limitato al centro storico) a distribuire gratuitamente, con dei grossi contenitori, un liquido anch’esso a base di D.D.T., a chiunque ne facesse richiesta, in una quantità modesta ma sufficiente alla bisogna.

Con questo si inzuppavano frutti dolci e ben maturi , fichi, pesche, pere, prugne, che venivano esposti come esche sui davanzali delle finestre, sui balconi, sulle scalinate all’aperto, o negli angoli delle vie e dei cantoni più degradati. Questa frutta era il paradiso (prima) e la morte (poi), per chissà quanti miliardi di mosche, ma non bastava.

Per qualche anno, ma sempre limitatamente alla stagione estiva, furono fatti confezionare dall’Amministrazione Comunale del nostro paese, e l’incombenza era sempre per gli scopini (non era stato ancora coniato il neologismo che ora li definisce operatori ecologici) dei mazzi di felci o di erica, del tutto simili alle ramazze che usano ancora oggi per spazzare le strade, che imbevuti di una sostanza dolciastra e del solito D.D.T., venivano appesi sulle pareti dei palazzi ad un chiodo, lungo le strade e per i vicoli del paese, a circa due metri di altezza dal piano stradale. Anche questi, insieme a tutto il resto, contribuirono a limitare, se non altro, la popolazione dei fastidiosi ditteri.

Altro accorgimento adottato dalla nostra Amministrazione di quegli anni, fu quello di innaffiare, oserei dire fino a lavarle, tutte le strade principali e, soprattutto i vicoli che si diramano dalle nostre grandi arterie del Centro Storico. Quando parlo di vicoli intendo: i’ Ccasalino, i’ Zsolalizio, i’ Zzoppo Musacchi, ‘e Prigioni Vecchie, ‘e Scaricate, i’ Vicolo Cieco, ‘a Cacarella, San Giuanni, Guercianetto, ‘a Signora ‘i Ccampanelli, i Bbuttacci, Sant’Angelo, ‘a Costa ‘e i Ffrati, fino a  San Francesco e tutto Piasole.

Tutti questi stretti e tortuosi vicoli, allora, ancora, oltre ad essere intensamente abitati da tantissime numerose famiglie, avevano al piano terra le stalle in cui soggiornavano stabilmente: somari, muli, qualche raro cavallo, maiali (tanti, circa uno per ogni famiglia), galline, conigli, porchettelli indiani, con tutto quel che ne consegue a livello di liquami, cattivi odori ed igiene intesa in tutti i sensi. Se poi aggiungiamo che ancora molte famiglie non avevano i servizi igienici in casa, non c’è bisogno di mettere altra carne al fuoco, mi pare che ce ne sia già abbastanza e che il quadro della situazione sia sufficientemente chiaro. Per le mosche ed altri insetti non ci poteva essere di meglio: “Panza mia fatte cappanna”. Ma siamo alle solite: ho ancora inserito un inciso un po’ troppo lungo.

Eravamo rimasti all’innaffiatura delle strade: quante immagini di luoghi, persone ed azioni oggi del tutto irripetibili, ma ancora vivi, per me, come se fossero di ieri appena!

Nella mattinata gli scopini passavano per le strade e co’ ‘a cariola ripulivano il paese dai rifiuti solidi. Nel pomeriggio, verso le tre, ora solare, non era allora in vigore l’ora legale, si armavano di idrante e di chiave a T perché aveva proprio questa forma. Era alta circa un metro, metallica ed adattata per girare i dadi di apertura delle bocchette antincendio dell’acquedotto comunale che stavano e stanno ancora lungo le strade e i vicoli del vecchio centro storico.

Lo scopino di turno, accerchiato da tutti noi ragazzi, mai eravamo meno di una ventina, sollevava il pesante tappo di metallo che copriva la prima bocchetta, inseriva il primo tratto metallico del tubo, lo avvitava e con la chiave a T, girava la valvola che dava il via alla fuoriuscita dell’acqua. Impugnata la parte finale del tubo di gomma che terminava con un rubinetto di ottone lungo circa mezzo metro, dava inizio all’innaffiatura. Aveva inizio cosi il lavaggio, fin quasi all’allagamento delle vie e dei vicoli, specialmente negli angoletti più nascosti e remoti, facendo scorrere senza risparmio l’acqua portatrice di pulizia e di tanta frescura per la successiva nottata, cosa che non guastava affatto.

Per noi ragazzi, senza mare e senza laghi, che al massimo facevamo qualche sguazzata nei paratoni da noi stessi costruiti lungo il corso del Fosso Zangola, questi pomeriggi ‘nnacquativi, erano quasi una festa e forse di più. Seguivamo gli scopini in tutto il loro giro e godevamo quando veniva sganciato l’idrante dalla bocchetta, per poi riattaccarlo a quella successiva. Il tubo nero di gomma, lungo una ventina di metri e che aveva un diametro di sette-otto centimetri, rimaneva pieno d’acqua e noi attaccandoci, a turno uno alla volta, lo scolavamo bevendo a sazietà e lavandoci e rinfrescandoci un po’ tutti.

Seguivamo lo spostamento da una bocchetta all’altra, mettendoci in fila indiana, distanziati di qualche metro l’uno dall’altro caricandoci su una spalla il tubo, aiutando così lo scopino di turno Polverone, Lullo, Giulio ‘a nnonna o altri, a trasportare il pesante tubo nero per tutto il paese nel lungo e divertente dopopranzo ‘nnacquativo, che terminava quando già l’aria rinfrescava.

Quant’era bello!! Altro che cartoni animati, videogames, mostriciattoli, alieni ed altra mercanzia simile di cui non conosco nemmeno il nome.

Prima che giungesse il tramonto tornavamo al nostro vicinato zsuppi comme i ppucini, ma felici, anche se un po’ stanchi. Ci bastava poco (ma di più non c’era) ed erano tutti, anche quelli che adesso non è il momento di rievocare ma lo faremo in qualche altra occasione, passatempi che non ci costavano nulla ed erano tanto divertenti.

Ma ritorniamo alle mosche! Una diminuzione sensibile di mosche, per non dire quasi totale, si ebbe quando con il progredire della presa di coscienza del problema in tutti i suoi aspetti, le varie Amministrazioni, ciascuna per la parte e il territorio di sua competenza, e tra queste la nostra Comunale, negli anni Sessanta, intervennero alla radice, a monte del fenomeno, cioè all’inizio del ciclo vitale degli insetti.

La lotta a tappeto aveva inizio già prima degli ultimi giorni dell’inverno, tra febbraio e marzo, quando gli insetti adulti depongono le uova dalle quali, ai primi tepori primaverili, si sviluppano le larve .

Le mosche e insetti simili, depongono le uova in luoghi malsani, ricchi di liquami organici e rifiuti urbani per lo più umidi. Da noi, i due corsi d’acqua che scorrono entro le due valli a nord ed a sud del nostro paese, il Fosso Zangola e il Fosso della Cupa che diventa, all’uscita dell’abitato, il Fosso di Maregnano, oltre ad essere alimentati da sorgenti proprie che di anno in anno sono sempre più povere, se non del tutto asciutte, raccoglievano, e li raccolgono ancora, tutti i liquami urbani, per cui offrivano un habitat ideale per la deposizione, l’incubazione, lo sviluppo e la diffusione delle mosche.

La battaglia intrapresa dalle Amministrazioni che si sono avvicendate alla guida del paese, consisteva nel cospargere abbondantemente, nel periodo dell’incubazione e dello sviluppo delle larve, lungo i due fossi, per un raggio di alcuni metri dalle due rive, sostanze nocive e letali per esse. A distanza di tanto tempo, ripensando agli ultimi anni Sessanta e ai primi Settanta, quando ho avuto una appena decennale esperienza di consigliere comunale del nostro paese, mi par di ricordare che un prodotto molto usato per questa battaglia, associato anche ad altri, fu la calciocianamide, un fertilizzante molto usato per concimare i terreni coltivati a grano, nel periodo pre-primaverile,dai contadini che nel nostro dialetto lo chiamavano ‘a celammite.

In agricoltura aveva due effetti : agiva come erbicida per le piante infestanti i terreni coltivati a grano (papaveri, fiordalisi, cardi, cresta di gallo ed altre) e come fertilizzante per il grano stesso. Questo prodotto, associato, come ho già detto, a qualche altro composto chimico, ha prodotto, diciamo, ottimi risultati anche nella lotta contro le mosche. Soltanto grazie a questi mirati interventi, compiuti di concerto tra tutte le Amministrazioni Pubbliche, ciascuna per la parte di sua competenza, si è riusciti a limitare in quegli anni, fino a portarla a livelli quasi insignificanti di oggi, la presenza nel nostro ambiente delle mosche.

Il resto poi lo hanno compiuto le migliori condizioni di vita igienico-sanitaria, penetrate in tutti gli strati sociali, viste da ogni angolazione. Un fondamentale contributo certamente lo dettero due epocali mutamenti avvenuti nelle abitazioni del vecchio centro storico: l’arrivo e la fornitura dell’acqua corrente nelle case ed il trasferimento e il divieto di allevamenti di animali domestici entro il perimetro urbano.

Se però ancora oggi vediamo qualche mosca di troppo in giro, specie nelle case, pazienza, può essere utile per tornare indietro nel tempo, sia a chi ora sta scrivendo sia a chi forse avrà la costanza di leggere tutte queste pagine, per ricordarci l’un l’altro come eravamo.

A conclusione della chiacchierata e di quanto bene o male ho scritto, racconto due aneddoti paesani avvenuti proprio nel nostro paese, molti anni fa, uno in un bar e l’altro in casa mia, aventi entrambi per protagoniste, non proprio principali ma comprimarie, due mosche.

Anni fa, verso la fine degli anni Sessanta, l’indimenticato, simpaticissimo e ben conosciuto da tutti i Vignanellesi, Sergio Carosi, aveva il suo laboratorio di sartoria in Via Cavour nel locale, che in origine era la stalla della scuderia di cavalli da corsa di Luigi Mecozzi (Giggi ‘e Patrizio),ed ora ospita il negozio di biancheria intima e per la casa di Erasmi. La bottega di Sergio era il ritrovo dei suoi amici, dei clienti e dei cacciatori. Qui si parlava, si raccontava, si rideva , ci si sfotteva l’un l’altro, insomma ci si divertiva. Prima di chiudere la bottega e di sciogliere l’allegra brigata per le normali ore di chiusura dei negozi e dei laboratori o al termine di una lunga chiacchierata, egli spesso diceva: “Ed ora per concludere: una poesia di Vituccio”.

Era questa la frase con cui il direttore (il capocomico) di una delle tante compagnie teatrali girovaghe che, allora, di tanto in tanto si fermavano a Vignanello e in tanti altri paesi, concludeva le sue rappresentazioni.

Vituccio era un bambino della compagnia, che al termine dello spettacolo, recitava garbatamente qualche poesiola molto conosciuta, per strappare un ultimo applauso agli spettatori.

Sergio aveva sempre qualche aneddoto o qualche fatto buffo o comunque interessante per concludere le riunioni con gli amici. E’ stato un precursore del nostro: “Me ricordo quell’anno…”.

Anch’io, come Vituccio, concludo con i due aneddoti di cui sopra vi ho già detto.

C’era a Vignanello, negli anni di abbondanza di mosche, di cui abbiamo tanto parlato, un barista molto arguto, simpatico, piacevole ed imprevedibile per certi suoi modi di dire e di agire.

Un giorno un cliente del bar gli ordinò un caffè ristretto. Egli glielo preparò per bene, come sapeva fare e glielo servì. Il cliente con calma, forse troppa, fini di parlare con un amico, ci mise un cucchiaino di zucchero, lo girò e se lo stava portando alla bocca quando notò che sul suo caffè ristretto galleggiava una mosca, non ancora del tutto morta.

Chiamò per nome il barista e gli disse un po’ infastidito: “Ma decchì d’ i’ ccaffè c’è drento ‘na mosca!”, la risposta del barista fu: “Embè che c’è, che nun te va bene?!”. E il cliente, ora anche un po’ irritato: “Comme che c’è! C’è ’na mosca drento i’ ccaffè mio!”. L’altro calmo ed abbozzando un leggero sorriso: “Ma mica te l’ho fatta pagà, éh!”

L’altro aneddoto curioso accadde in casa mia, sempre nel bel mezzo degli anni di abbondanza di mosche.

Costanza, mia sorella maggiore, da qualche anno diplomata maestra elementare, era solita, sia nel corso dell’anno scolastico che durante le vacanze estive, dare ripetizioni agli alunni , diremmo oggi, in difficoltà e a quelli che erano stati rimandati agli esami di riparazione a settembre.

Era piena estate e in un caldo pomeriggio di agosto, una bambina delle elementari, veniva a ripetizione in casa nostra, da mia sorella che la ospitava nella sua cameretta. La bambina, che chiamerò con un nome non suo, Bellina, doveva riparare Aritmetica e Geometria.

Dopo una mezz’ora che stava lì a lezione, chiese alla maestra di poter fare merenda, mentre stava calcolando alcune divisioni a due cifre. Si era portata due belle fettine di pane bagnato, con sopra sparso lo zucchero. Una merendina molto usata in quegli anni.

Mia sorella ne approfittò per andare in cucina a bere un bicchiere di acqua fresca. Quando ritornò nella cameretta in cui svolgeva le lezioni, vide la bambina immobile, con la bocca semiaperta e con la lingua appena fuori dai denti che percorreva molto lentamente, girando in tondo, il contorno delle sue labbra. E fin qui nulla di particolare.

La cosa strana era che una mosca seguiva, passo dopo passo, lo spostarsi lento della lingua intorno alle labbra. Quando mia sorella chiese a Bellina cosa stesse facendo, lei candidamente, con un compiaciuto sorriso disse sottovoce: “Maè’, ‘a mosca me vo’ bbene!”.