24.12.2011 di Lillo Pacelli
Per noi ragazzi negli anni ’40, l’aria del Natale che stava per arrivare, a Vignanello, cominciava a sentirsi già verso la fine di novembre. Le strade, le piazze e i vicoli erano spesso percorsi dagli zampognari. Di solito erano in due: uno con la zampogna e l’altro con il piffero di legno, una specie di clarinetto. Mentre il primo, senza smettere mai di soffiare nel bocchino per mantenere sempre gonfia la zampogna, faceva uscire dallo strumento le note de “La Pastorella”, il secondo, di tanto in tanto, toglieva il piffero dalla bocca, estraeva dal tascapane che portava a tracolla un piattino di alluminio ed entrando nei negozi o fermando i passanti, chiedeva una piccola offerta. Dopo aver percorso le vie del paese a passo molto lento e cadenzato dalle nenie tradizionali, seguiti da noi ragazzi, gli zampognari arrivati alle ultime case del paese o verso Vallerano, o verso Talano o oltre la chiesa di San Sebastiano, smettevano di suonare e, come erano arrivati, senza fretta e a piedi, proseguivano per andare ad annunciare il Natale in qualche altro paese vicino. Un altro segnale del Natale vicino, era la comparsa in qualche negozio, ma particolarmente nella vetrinetta della Tabaccheria di Fernando ‘e Titta (Fernando Mezzopra), delle statuine (i bambocci) per il Presepio. Erano fatte di coccio o di gesso, quindi molto fragili, verniciati a tempera con colori scialbi e rivedendoli con gli occhi di adesso, mi viene da dire che erano piuttosto bruttini, però, quanto ci sembravano belli!! Tornando da scuola, tutti noi bambini, ci fermavamo ad ammirarli ed a scegliere quelli che avremmo voluto comperare. Eh sì, quelli che “avremmo voluto” comperare, perché di soldi non è che ce n’erano tanti. Ogni anno ne comperavamo qualcuno per aumentare i “personaggi”, ma ad ogni vigilia di Natale, quando andavamo a prendere quelli vecchi riposti in qualche scatola, puntualmente più di uno si trovava mutilato: ad una pecorella si era rotta una zampa, all’asinello si era staccata un’orecchia, a San Giuseppe si era spezzato un braccio, fino a trovare Melchiorre con la testa rotolata in fondo alla scatola. Tuttavia di fronte a tali calamità, non ci perdevamo d’animo: a mali estremi, estremi rimedi. Pur non avendo le formidabili colle e collanti di oggi, a noi bastava la cera. Accendevamo una candela, appena la cera cominciava a liquefarsi, ne facevamo colare qualche goccia sui pezzi da riattaccare, avvicinavamo i due lembi fino a farli combaciare il più possibile, li tenevamo immobili e, dopo qualche minuto, raffreddatasi la cena, il bamboccio ridiventava “sano”, presentabile e utilizzabile, anche se con qualche precauzione in più. Qualche giorno prima della vigilia di Natale, passando davanti ai negozi di frutta e verdura di Flavio Antonozzi e di sua moglie ‘a Ntonietta l’erbarola e de ‘a Bbabba, si cominciava a sentire quello che era l’odore del Natale: quello delle arance e dei mandarini freschi, con le foglie ancora vive, fresche e lucide attaccate al ramoscello con i frutti. Sembra impossibile, ma già allora, come di più oggi, ogni festività aveva la sua musica, il suo colore, il suo odore e, anche il suo sapore. Quale era allora il sapore del Natale di quegli anni? Non certo quello del panettone, del panforte, del pandoro, dei Saporelli, del cotechino, dello zampone e di altri alimenti oggi quasi obbligatori e “consigliati” dalla martellante pubblicità dei mezzi di informazione. Era il sapore dei ceciaroli, ripieni di un impasto di ceci o di marmellata di “moroncini”, dei broccoli fritti, dell’anguilla arrosto o in umido, delle ciambelle col vino, dei tozzetti, dei durissimi mostaccioli, degli squisiti crucchi e di altri cibi o dolci, tutti rigorosamente fatti in casa. Finalmente poi, dopo tanta attesa e tanti preparativi, arrivava il giorno della vigilia, tanto atteso, per motivi diversi da grandi e piccini. I grandi erano felici di riunirsi con parenti ed amici, per trascorrere alcune ore tutti insieme; sarebbero andati a passare un po’ di tempo a giocare a tombola al caffè e se la fortuna li avesse assistiti, avrebbero portato a casa torroni, cioccolate e caramelle (il costo di una cartella era di 10lire); da ultimo, ma non tanto, avrebbero mangiato un po’ più del solito e cibi più graditi ed appetitosi. I piccoli, oltre alle stesse cose dei genitori, avevano un validissimo motivo in più e molto concreto per attendere la sera della vigilia: avrebbero ricevuto la “mancia” dai genitori, dai nonni, dagli zii e, chi aveva fatto la cresima, dal compare e dalla commare. Per noi ragazzi che frequentavamo le elementari, era d’obbligo la “letterina” per i genitori, preparata di nascosto. Per i genitori e di nascosto, per modo di dire, perché l’unico a non saperlo, o credo a far finta di non saperlo, era il babbo. La mamma infatti, era nostra complice, poiché ci dava i soldi per comprarla o ce la comperava lei stessa, la leggeva quando la portavamo a casa dopo averla scritta a scuola con l’aiuto della maestra e, la sera della vigilia di Natale, quando apparecchiava la tavola, ci aiutava a nasconderla sotto il piatto del babbo. Al termine della cena, quando si sparecchiava, c’erano le esclamazioni di meraviglia, allorché saltava fuori la letterina, o le letterine quando i figli, come si verificava spesso erano più di uno, da sotto il piatto nel quale il babbo aveva mangiato e che, stranamente quella sera durante tutto il pasto, gli aveva traballato in continuazione perché non spianava bene. In piedi su di una seggiola, i figli, a turno a cominciare da quello, diciamo così, più sfacciato, davano lettura dei buoni propositi, delle promesse e degli auguri ai genitori. Alla fine delle letture, talvolta arricchite, da parte dei più piccoli, della recita di qualche poesia o composizione natalizia, i’ sermone, che mamma e nonne gli avevano insegnato a partire dal mese di novembre, il babbo tirava fuori il portafoglio, rimpinguato appositamente per l’occasione, e faceva a tutti i figli la “mancia”. Non era una grande somma quello che ci veniva dato, ma per noi era un patrimonio e forse, chissà, lo era anche per i nostri genitori che non navigavano certo nell’oro; teniamo presente che la guerra era finita da poco tempo e che in quegli anni a Vignanello, per più del 90% delle famiglie, l’unica risorsa era l’agricoltura, molto meno redditizia di quella attuale e non c’erano stipendi o altre entrate, né tanto meno le pensioni, neppure per i nonni. Verso le otto, infilati i cappotti (i ppartoncini), tutta la famiglia usciva per recarsi a dare il Buon Natale ai nonni che stavano ad aspettare nella loro casa. Qui, intorno al grande camino acceso, nonni, figli, e nipoti, trascorrevano qualche ora. Si giocava a tombola, si mangiavano ceciaroli e altri dolci, si parlava e si ascoltava (la televisione ancora era in mente Dei). Erano sempre riunioni molto allargate. Tra genitori, nonni. zii, cugini e qualche compare con la comare, c’era sempre chi ne raccontava di tutti i colori: buffe e tristi, allegre e commoventi, spassose e paurose, di quelle tanto strane, grosse ed inverosimili che erano state tenute in serbo per l’occasione, di quelle insomma che ancora oggi in paese si dice: “Qué è da riccontà ‘a sera ‘e Natale”. Verso le undici, i nonni e gli zii facevano la mancia ai nipotini e poi, tutti in fila, alla Messa di Mezzanotte ad aspettare che nascesse il Bambinello. La chiesa, gremita di grandi e piccini, era più illuminata del solito; erano accese tutte le candele e tutte le lampadine degli altari. L’aria era impregnata del fumo delle candele e dell’odore dei rami di elce a di alloro che facevano da sfondo al presepio. Nell’altare centrale del lato sinistro della navata della chiesa, c’era il presepio: la Madonna, San Giuseppe, il bue, l’asinello, la culla ancora vuota e qualche pastorello, tutti ad altezza d’uomo. L’atmosfera era carica di tensione: tutti erano in trepidante attesa. A mezzanotte in punto, anche se qualcuno era sul punto di addormentarsi, veniva scosso dallo scampanio festoso delle due campane che stanno vicine alle due porte ai lati dell’altare maggiore. Anche Giacinto Lucchesi, il Campanaro, che aveva assistito alla messa dalla sua postazione abituale, facendo spesso capolino dal balconcino-pulpito situato sulla fiancata destra della navata della chiesa, circa a metà parete, tirando ritmicamente le funi delle campane del campanile, annunciava anche a chi era rimasto a casa la nascita di Gesù. In questa atmosfera festosa e commossa, dall’altare maggiore, l’abate don Venturino Bracci, si avviava con passo solenne verso il presepio, tenendo ben in alto il Bambinello in modo che tutti potessero vederlo, con tutte e due le mani, Faceva il giro della chiesa per farlo ammirare a tutti e poi lo posava dolcemente sulla paglia dentro la mangiatoia. Con nelle orecchie ancora le note e le parole della “Pastorella”, si faceva ritorno ciascuno nella propria abitazione. Quanto era bello il Natale! Quanto calore in casa! Ma non il calore del camino o della stufa a legna! Sì, anche quello. Quello che sentivo allora, era il calore della famiglia, dei parenti, degli amici, dei vicini di casa. Era un calore che ci scaldava dentro e ci rendeva felici, anche se con le condizioni economiche di allora, in gran parte delle case e delle famiglie, c’era poco da stare allegri. Questo era il Natale negli anni Quaranta. Ancora non facevamo l’albero e non si incontrava per le strade Babbo Natale, anche perché, ad essere del tutto sinceri, sia noi ragazzi ed anche le persone più grandi di allora, non sapevano neppure della loro esistenza.
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