11.02.12
Il “Me ricordo quell’anno…” di questa volta mi è ritornato alla memoria con tutta la sua enorme varietà di ricordi, fatti e persone. Prende spunto dalle abbondanti nevicate di questi giorni e dell’ultima in corso ora, mentre sto scrivendo, proprio adesso che sono le 18.30 di venerdì 10 febbraio 2012. Nevica a tutto spiano e le previsioni dicono che nevicherà per tutta la nottata su gran parte dell’Italia, pure a bassa quota ed anche su Roma. Foto coll. Valeria Annesini
Sono trascorsi la bellezza di 56 anni esatti da quel 1956! Avevo da alcuni mesi messo in piedi il mio 17° anno di età. Cominciò a nevicare, proprio come quest’anno, il 3 febbraio, Festa di San Biagio. Da noi era festa, ma io che frequentavo l’Istituto Magistrale, al mattino ero andato a scuola a Viterbo come tutti gli altri giorni feriali. Nel primo pomeriggio, mi pare, cominciò a cadere la neve e ne fece abbastanza, ma non tanto da creare problemi al traffico delle macchine, che peraltro ce n’erano in circolazione ancora poche, né alle persone che, per la maggior parte ancora dedite all’agricoltura, accolsero la neve quasi con gioia infantile, come pure la salutammo noi giovani e ragazzi che vedevamo in prospettiva, qualche giorno di vacanza a scuola. Inizialmente questa eventualità però non avvenne perché, se non ricordo male, le scuole almeno per qualche giorno, rimasero aperte e il treno della Roma Nord fece le sue normali corse. Ora però i ricordi mi si confondono perché mi pare che per qualche giorno, dopo il 3 febbraio, ed in quello successivo, non nevico quasi più e ogni cosa stava per tornare alla normalità. Allora ancora non c’era la capillare diffusione della televisione nelle case. Soltanto i bar (e nemmeno tutti), le sezioni dei Partiti (alcune) e pochissime famiglie avevano un televisore. Pertanto non avevamo le previsioni meteorologiche né a breve né a lungo termine, né in tempo reale, né tramite la rubrica: “Che tempo fa” curata dal colonnello Edmondo Bernacca che, come scherzosamente ma non troppo, sostenevano in molti, non ci “azzeccava mai”, anticipando di qualche anno le battute finali di uno spot pubblicitario di “Carosello”, in cui agiva il fraticello Cimabue che “se faceva, una cosa, ne sbagliava due”. Scherzi a parte, il colonnello Bernacca, ha fatto epoca, perché ha portato la meteorologia alla portata di tutti. Parlavamo però del nevone del ‘56, che dopo qualche giorno sembrava si esaurisse in una bella nevicata e nulla più. All’improvviso, in un tardo pomeriggio, cominciò a nevicare per ore e ore, per giorni e nottate intere e la neve coprì tutto. Foto coll. Valeria Annesini
Furono chiuse le scuole di ogni ordine e grado in gran parte d’Italia. Da noi si fermarono i treni della Roma Nord. I contadini non poterono più andare in campagna. Gli scopini (allora si chiamavano così e non erano ancora definiti operatori ecologici), non scoparono più le strade, ma vennero dirottati a spalare la neve nelle strade e nei vicoli. Per fortuna l’economia quasi unicamente agricola, ci risparmiò dalla fame. Nelle case c’era farina, olio, vino, cereali di ogni tipo, patate, frutta secca, carne del maiale macellato nei mesi invernali; c’erano polli, galline, uova, conigli e, alcuni particolari allevatori, avevano anche branchi di porchettelli indiani. Le stalle, anche all’interno del centro abitato, in cui erano custoditi gli asini, erano stipate di legna che ogni anno veniva portata a casa dalle campagne e dalle macchie, prima di ogni inverno. E poi, quello che aiutò tutti a superare giorni e giorni di penuria del necessario, fu la innata frugalità e parsimonia della nostra cultura contadina. Dopo un po’ di giorni, forse potrei dire di una settimana, cominciarono i guai un po’ per tutti. Cominciò a scarseggiare qualche alimento dalle dispense. Le scorte di legna da ardere cominciarono ad assottigliarsi, come pure quelle di carne, frutta e pasta nei negozi di generi alimentari. Passò qualche giorno ancora e cominciarono a scarseggiare anche alcuni medicinali nell’unica farmacia del paese, del dottor Oddino Scipione Mancini.
Eravamo ormai all’emergenza. Non ricordo più quanti giorni fossero passati dalla prima nevicata, ma penso più di una quindicina. Per tutti i santi giorni, gli uomini o stavano in casa, o andavano a fare più di quattro chiacchiere nei bar o in qualche bottega artigiana, e ce ne erano tante di fabbri, falegnami, calzolai, barbieri e, maniscalchi; le donne di famiglia stavano in casa ad accudire alle usuali faccende domestiche ed a preparare i pasti con quel poco che era loro rimasto. Quelli che stavamo meglio, sia femmine che maschi, eravamo noi giovani. Le signorine si riunivano in casa di qualcuna di loro a parlare dei loro “amori” ufficiali o di quelli ancora in boccio specialmente in quei giorni, periodo di Carnevale, negli immancabili trattenimenti danzanti pomeridiani ma soprattutto nei “Veglioni” serali, durante i quali venivano elette le varie “Miss”. Tutti appuntamenti che quell’anno in gran parte stavano andando a farsi friggere a causa delle continue nevicate. Noi ragazzi invece, non avendo ancora un lavoro da svolgere, stavamo sempre nei bar a giocare a carte o a bigliardo, a parlare, a scherzare e in giro per le strade a divertirci a giocare con la neve. Ma anche per noi, con il passare dei giorni, sopraggiunse qualche disagio. Sempre più spesso dovevamo aiutare i nostri genitori, soprattutto i babbi, a liberare le scalinate esterne delle case, i balconi, e i vicoli in cui abitavamo,dalla neve che cadeva in continuazione. Dovevamo portare in casa la legna dalle stalle in cui era ammassata o dalle campagne più vicine all’abitato. Di questi momenti di emergenza un po’
particolari, me ne tornano alla mente alcuni che ora cercherò di
raccontare al meglio di quanto ricordo.
Per l’emergenza medicinali, le autorità locali, in quale modo non so, chiesero aiuto ai loro superiori ed arrivò un elicottero, con a bordo molti medicinali, che atterrò, mi pare, vicino al cimitero o al campo sportivo e la farmacia fu rifornita. Per molti pomeriggi verso le quattro, mentre stavo al bar, vedevo mio fratello Fernando, di otto anni più giovane di me, che veniva a chiamarmi, mandatoci dai miei, affinché insieme a mio padre salissi sul tetto della nostra casa, a liberarlo con la pala, dalla neve che qualche volta raggiungeva quasi il metro di spessore. Questa operazione la compimmo più di una volta. Come noi, nell’isolato in cui abitavamo, anche gli altri facevano questa operazione di riversare la neve sulla strada del vicoletto sottostante, il Vicolo Cieco, che è quasi adiacente alla Collegiata, per cui lo spazio percorribile, già stretto per natura, era ridotto ad un camminamento, simile a quelli delle trincee, che ogni tanto si vedono nei filmati della Prima Guerra Mondiale, non più largo di mezzo metro, con ai lati due muri di neve che arrivavano all’altezza delle finestre dei primi piani delle case.
Un altro ricordo riguarda l’emergenza legna. Mia madre, aveva la sua mamma Maria, che vedova da anni e sola, abitava in Via delle Croci. Un pomeriggio, andò a farle visita e si accorse che le sue scorte di legna erano ridotte al lumicino. Subito la mattina successiva si attivò tutta la figliolanza: mio padre ed io, i due fratelli di mia madre, zio Antonio e zio Angelo con suo figlio Emidio (Mimmi), andammo a Fuiano a fare i boscaioli. Fuiano è una contrada di campagna a meno di un chilometro di distanza dal campo sportivo. La strada, se pur breve, era molto sconnessa e stretta, con ripide salite e discese, e nell’ultimo tratto, era non più di un semplice stradelletto del tutto introvabile con tutta la neve che vi si era depositata sopra. Non fu cosa semplice raggiungere il castagneto di mia nonna. Arrivati in qualche modo, armati di accetta, roncole e di una balla ciascuno, abbattemmo un vecchio e decrepito castagno. Non ci volle molto, ma il rientro in paese, fino alle Croci, non fu cosa molto agevole soprattutto per la neve e per il peso che trasportavamo. Tutti in fila indiana, con davanti a turno, uno dei tre più grandi a fare da battistrada, anzi è più esatto dire da apripista, perché dal campo sportivo in avanti, lo strato di neve era intatto: “vergine”. Rientrammo in casa, dopo aver ravvivato il fuoco alla nonna, che era ora di pranzo. Tutto sommato, nonostante il disagio e la fatica, questa “scampagnata”, un po’ “sui generis” fu una bella esperienza che ogni tanto rammento con piacere. Ma incurante dei disagi che causava a tutti, la neve continuava a cadere e quel che ci meravigliava era il fatto che in certi momenti nevicava anche con il cielo pressoché sereno. Il manto nevoso pareva che lievitasse, proprio come l’impasto di farina ed acqua e lievito col quale si preparano le pizze ed il pane. Bastava che comparisse una nuvola e in pochi minuti la caduta di neve fresca ricopriva gli spazi resi percorribili di strade, vicoli, scalinate ed accessi di case e negozi, per liberare i quali erano occorse ore di lavoro. Sembrava non finire mai. Foto coll. Augusto Agnitelli
Passò qualche giorno ancora ed ecco comparire l’emergenza legna per tantissime famiglie. Allora si bruciarono anche le cose più impensate: pali estirpati da cancelli, mobili vecchi, sedie malridotte e tutto ciò che poteva servire ad alimentare la fiamma. Non so chi sia stato, ma è ancora benedetta, da molti Vignanellesi che hanno vissuto quei giorni, la persona che si mise in contatto con il principe don Francesco Ruspoli che risiedeva a Roma per informarlo di tutto quanto stava accadendo a Vignanello. Fatto sta che il principe diede subito il permesso a qualcuno dei custodi del Castello di prelevare dai sotterranei di questo, tutta la legna che stava lì accatastata per distribuirla a chi ne avesse bisogno. Chi poté lascio un’offerta minima, quasi simbolica e si portò a casa una certa quantità di legna che, fra l’altro era ottima : quercia, cerro ed elce, ottenuta dalla potatura che ogni anno si faceva delle piante del Cocchjo. Mio padre ed io portammo a casa due bei ciocchi di elce che ci bastarono, dopo averli tagliati a misura per la stufa, per qualche giorno. Alcune persone, di notte, fecero sparire un po’ alla volta, tutta la staccionata in travetti ed assicelle che separava il Giardinetto Pubblico dalla Ferrovia. Altri ammanchi di legname di vario genere, furono notati in tutto il centro abitato e nelle campagne che lo circondavano.
Nel bel mezzo dei giorni del nevone, ci fu poi il riaccendersi, per caso, della storica rivalità tra Vignanellesi e… stavo per scrivere un’altra parola, Valleranesi. Durante una mattinata in cui le nevicate concessero una tregua, ma ancora tutto era bianco, un gruppo di giovani valleranesi, dalla Colonnetta si inoltrarono per Via San Rocco, mentre un analogo gruppo di vignanellesi percorreva la stessa strada in senso contrario. Come fu, come non fu, scoppiò tra i due gruppi una piccola scaramuccia, prima a parole, e poi volò qualche sberla. I Valleranesi rientrarono al loro paese. Nel primo pomeriggio alcuni nostri ragazzi che stavano facendo a pallate nella zona del Molesino, videro un nutritissimo gruppo di Valleranesi che venivano verso la Colonnetta e camminando impastavano palle di neve. Fu dato, dai ragazzi, l’allarme ai bar di Vignanello. La notizia si diffuse in men che non si dica: due folti gruppi radunatisi uno a San Rocco ed uno al Molesino, marciarono verso gli improvvisati invasori. Lo scontro avvenne alla Colonnetta. Le palle di neve volarono per un bel po’ e la battaglia era ancora dall’esito incerto, quando avvenne la svolta. Una palla, o perché più grande delle altre, o perché impastata meglio era diventata durissima, colpi in pieno la lampada di un lampione dell’illuminazione pubblica che stava ai bordi della strada. La lampadina e tutto il paralume di rivestimento in vetro che la proteggeva andarono in frantumi e caddero a terra. Qualcuno, insieme alla neve da impastare per fare un’altra palla, inavvertitamente raccolse anche dei pezzi di vetro, per cui si procurò delle ferite alle mani. Nella foga dello scontro, la cosa successe anche ad altri di entrambi gli schieramenti. Non passò molto tempo che i feriti abbandonassero il campo, seguiti a poco a poco da tutti gli altri. Lo scontro si concluse con alcuni feriti che non ebbero bisogno di alcun giorno di guarigione e senza vincitori né vinti.
Così, tra un evento e l’altro, passarono i giorni dell’interminabile nevicata, durante i quali si ebbero anche qualche lieto evento e qualche decesso. Il lieto evento che ricordo, allietò la famiglia del provetto e rifinito calzolaio Antonio Perugini e di sua moglie Maria Ceccarelli con la nascita di una bella bambina alla quale fu imposto il nome di Bianca, in ricordo della candida neve che cadeva nel momento in cui venne alla luce. L’altro evento, purtroppo luttuoso, ma la vita è anche questo, riguarda la morte di una donna, vicina ai cento anni di vita che morì nei giorni centrali del nevone: Flora Maggi, moglie di Ildebrando (Brando) Loppi. Siccome non era possibile effettuare il
trasporto funebre da casa alla chiesa e da qui al cimitero nel modo
consueto di allora, cioè a piedi trasportando il feretro a spalla,
il mesto trasporto fu effettuato con un trattore a cingoli e con un
rimorchio sul quale fu posta la bara.
C’è infine, ma si potrebbe continuare per molto, un altro ricordo, stavolta un po’ più allegro. Nel bar in cui eravamo soliti andare a trascorrere il nostro tempo libero, io ed i miei amici, un pomeriggio in cui non avevamo ancora alcun progetto per vivacizzare la serata, pensammo di andare, la sera stessa, a cena in una cantina di qualcuno di noi. In quei tempi, quasi tutti noi, eravamo figli di contadini, per cui ognuno aveva la sua cantina, ben attrezzata per ospitare incontri, con le immancabili merende o cene, e con ampia e variegata gamma di vini a disposizione Eravamo un bel gruppo, uniti, allegri e amanti del bel canto, soprattutto di quello fatto in coro (quando ci pigliavamo). Nelle riunioni importanti, come quella sera, non mancava mai nessuno. Ora li chiamo alla ribalta: io, Francesco Marini (Checco), Mario Ciambella, Enrico Stefani, Vincenzo Antonaroli, Biagio Ziaco, Tomassino Ceccarelli, Napoleone Rita, Innocenzo Baldassarra (Cencio), Mario Olivieri, Pino Pacelli, Sandro Annesi, Mario Tusoni. Poi c’erano quelli che ora non sono più tra noi e che non ho citato perché li voglio ricordare tutti insieme, per riunirli in un caloroso abbraccio e in un commosso ricordo di tutto quanto abbiamo combinato insieme e di quanto di bello ci hanno lasciato: Romolo Grattarola, Pierino Bracci, Gianfranco Cherubini, Marino Ziaco, Franco Grattarola, Salvatore Gnisci (Nuzzo), Germano Olivieri. Quella sera, la chiave della cantina, la mise, questo era il gergo, Checco e chi metteva la chiave a disposizione, questa era l’usanza, avrebbe anche offerto il vino da bere, mentre al pane e al companatico, ci pensammo noi ospiti. La cantina scavata nel tufo, come tutte quelle di Vignanello, si trovava in uno dei due o tre gradoni situato più in basso, un po’ al di sopra della valle in cui scorre il Fosso Zangola, nel rione di Sant’Angelo Basso. E’ questa, lo sappiamo bene noi Vignanellesi, la zona più a frigido del nostro paese. Quindi: frigida la zona, in forte pendenza la strada, temperatura da giorni sotto lo zero, strada innevata e ghiacciata, lascio immaginare, a voi che leggete, quante acrobazie dovemmo compiere per arrivare da Checco. Ma ci arrivammo. All’interno non faceva caldo, ma si stava bene e poi mangiando, bevendo, scherzando e cantando, non dico che sudammo, ma trascorremmo una piacevolissima serata, senza avvertire benché minimamente il freddo che c’era all’esterno. Quando eravamo vicini alla mezzanotte, finalmente decidemmo di uscire per tornare a casa. Guardando verso ‘e Coste ‘e Piacciano che avevamo di fronte, e alzando gli occhi al cielo vedemmo che ogni stella pareva una cometa per quanto brillava. Era una serata, di cui l’inverno vero è spesso portatore, di una nottata limpida e serena, ma è anche risaputo che tali notti, sono anche le più gelide. Ci vorrebbero molte righe, ma ve le risparmio, per descrivere gli scivoloni, le acrobazie, gli scoppi per terra della maggior parte di noi per arrampicarci tra muretti, selci ed ostacoli vari, su per tutta l’erta del rione Sant’Angelo, fino ad arrivare al nostro abituale punto di ritrovo, il Caffè Rocchjetto, che ancora era aperto e pieno di clienti. Ci fermammo ancora un po’e poi tutti a nanna.
Trascorse ancora qualche giorno, poi la neve smise di cadere. Quella che stava sui tetti, sulle strade, nei vicoletti del vecchio centro storico e in ogni dove, con il salire delle temperature, cominciò a sciogliersi, i treni cominciarono di nuovo a sferragliare sui binari e le strade lentamente tornarono ad essere percorribili per tutti i mezzi di trasporto. Ognuno pian piano riprese il suo ritmo di vita abituale, compresi noi studenti che tornammo sui banchi di scuola. Lentamente, dapprima un po’ a fatica, poi pian piano più speditamente riprese il suo scorrere giornaliero la vita “di questa bella d’erbe famiglia e d’animali” (Ugo Foscolo). Ma quanto ce ne volle! E quanti bei ricordi ci ha lasciato il Nevone del ‘56!
Sabato 11 febbraio 2012 Lillo Pacelli
|