11.11
Nel settembre del 1956, il nostro giovane parroco don Luigi Calvanelli, organizzò un periodo di campeggio, solo per ragazzi, in un vecchio convento di frati, situato ai piedi della montagnola chiamata “La Palanzana “, tra i monti Cimini, a circa 4 chilometri da La Quercia. Io raggiunsi in ritardo i compagni di campeggio,per motivi di studio, quando il periodo di vacanza era già iniziato da circa una settimana. Per andare su, approfittai di una delle “corse giornaliere” che compiva al mattino il portaviveri del gruppo, così lo chiamavamo, Lando Bracci, con la sua motocicletta che, se non ricordo male, era una Devil di 150 c.c. Concordai con lui il luogo e l’ora di partenza: era per un certo giorno, di mattina, verso le otto davanti al “Forno elettrico” (!), così lo chiamavamo, che in quegli anni occupava lo stesso locale in cui ora c’è la sede della filiale del Banco di Brescia. Qui Lando, ogni mattina, al massimo due, caricava una sacchetta con dentro il pane appena sfornato, per portarlo ai campeggiatori, alla Palanzana. Arrivai per tempo al punto di ritrovo, portandomi sulle spalle la mia brava valigia, saldamente per me, sicuramente in modo precario per voi che leggerete, legata con gli immancabili tre giri di spago per tenerla chiusa, contenente gli indumenti di ricambio, sia per me che per mio fratello Fernando che stava già lassù dall’inizio del campeggio e, ripiegata e fissata, con altri giri di spago, all’esterno, una lucchesina (hai visto mai avesse fatto freddo di notte). All’ora stabilita giunse Lando, con la sua ronbante Devil. La issò sul cavalletto, entrò nel forno e ne uscì subito dopo con una sacchetta quasi piena di pane ancora fumante. Posizionò questa, come a cavalcioni, sul serbatoio, in bell’equilibrio, mise in moto e mi invitò a salire sul sedile posteriore. Io caricai prima la valigia dietro le sue spalle, poi salii e mi accomodai alla meglio, in pizzo in pizzo, seduto a cavallo proprio al limite del sedile, a causa della valigia che mi manteneva distante dal conducente. Lando mi disse di aggrapparmi al suo giubbotto con entrambe le mani e, anche se non troppo comodi né io né lui, in equilibrio un po’ precario, decollammo. Attraversammo la Valle, San Rocco, Vallerano e Canepina. Si stava bene nell’arietta fresca del mattino, ma non era freddo. Non vedevo l’ora di arrivare. Al bivio per Soriano, quasi in cima alla salita e poco prima di prendere la discesa verso Viterbo, trovammo una pattuglia di due carabinieri in servizio che ci fermò per i controlli di rito. Controllarono il bollo e il libretto di circolazione (non era ancora in vigore la patente per i conducenti di motocicli) e prima di lasciarci ripartire, il graduatosi rivolse a Lando: “E’ tutto in regola, ma così combinati e con tutto questo bagaglio non potreste circolare; in qualche situazione difficile di traffico, in un ingorgo o con un ostacolo improvviso davanti…!” Lando non gli lasciò terminare la frase: “Senta maresciallo, se vuole io le faccio vedere qualsiasi manovra che lei mi chiede di eseguire!” E così dicendo, pur restando a cavallo della moto, con i piedi a terra, si alzò ben eretto e con aria di sfida, mostrandosi pronto ad eseguire qualsiasi acrobazia, fissò negli occhi il maresciallo e rimase immobile in silenzio. Quest’ultimo si voltò lentamente verso l’altro carabiniere poi si girò verso di noi: esaminò con un lento sguardo il sacco pieno di pagnotte a cavallo del serbatoio. Lando ancora in piedi e ben eretto in attesa di ordini, la mia valigia, la lucchesina e me, che mi reggevo seduto a mala pena e che ero ancora aggrappato al giubbotto del conducente. Abbozzò un significativo sorrisetto, sollevò un tantino la visiera del berretto e lentamente, con aria seriosa scandì: “Per carità! Per carità! Non mi faccia vedere alcuna manovra! Andate, andate pure! Buon proseguimento!” A me battè una mano sulla spalla, accennò il saluto militare a Lando portandosi lentamente la mano destra aperta vicino alla visiera, non disse altra parola e ci lasciò partire. Giungemmo al convento della Palanzana senza dover superare alcun altro intoppo e trovammo don Luigi e tutta la compagnia radunata e quasi schierata in attesa del nostro arrivo. Della mia permanenza al campeggio ho tanti ricordi, ma sarebbe troppo lungo per me scriverli e per voi leggerli. Però quanto accaduto in due giornate consecutive lo racconterò e vi invito a leggerlo perché non dovrebbe essere eccessivamente lungo e potrebbe essere anche un po’ spassoso, se riuscirete ad entrare nell’atmosfera del momento e nelle azioni dei personaggi che agiscono. In queste due giornate, la squadra di cui facevo parte, doveva programmare, preparare e servire il “ primo piatto” per il pranzo e per la cena. La squadra era composta dal sottoscritto e da Pierino Stefani, Augusto Petti e Giuseppe Lagrimanti (ma Peppino per tutti noi), che era di qualche anno più grande di noi e pertanto fungeva da caposquadra. Per il primo giorno programmammo: Riso in bianco con burro e parmigiano. Una portata, apparentemente molto semplice da preparare. Al mattino, al momento giusto, accendemmo il fuoco nella grande cucina metallica a legna, che aveva un’infinità di fornelli ed era al centro di una grandissima stanza. Mettemmo a bollire un gran pentolone con molta acqua ed attendemmo. Quando mancava una mezz’ora al pranzo e l’acqua stava per alzare il bollore aggiungemmo il sale. Aggiungemmo altra legna al fuoco ed in breve l’acqua entrò in ebollizione. Prendemmo dalla dispensa la quantità di riso che ritenemmo sufficiente, anzi abbondante, per tutti i commensali e la calammo nel pentolone per la cottura. Nessuno di noi aveva mai cotto del riso per cui già dopo qualche minuto che lo avevamo buttato giù, cominciammo a turno ad assaggiarlo. Il riso non si coceva mai. Ad un certo punto notammo che nella pentola il riso stava sempre più stretto e quasi non riuscivamo più a rimestarlo; sembrava che l’acqua fosse tutta evaporata. Ci preoccupammo soltanto di aggiungere un po’ di acqua per poterlo almeno rimescolare e per evitare che si attaccasse sul fondo della pentola. Dopo un po’, già sentivamo le voci dei commensali che radunati nel refettorio chiedevano cibo. Qualche minuto ancora e decidemmo ci scolare. Con grande stupore di tutti, notammo che non c’era più acqua da scolare: riso ed acqua si erano fusi in un impasto colloso di chicchi non del tutto ancora completamente cotti, che si erano raggruppati in grumi di diversa grandezza. Prendendo il pentolone per i manici, due di noi lo portarono in refettorio fra gli applausi di tutti e l’appetito che ormai era diventato quasi fame a causa del ritardo. In ogni piatto mettemmo alcune abbondanti mestolate di riso, con burro e parmigiano a volontà. Ci furono molti mugugni e parecchie frasi irripetibili di non eccessiva approvazione per il servizio reso, ma l’appetito di tutti e un discreto secondo a base di carne in scatola, ci salvò dal peggio. Per il giorno successivo programmammo: pasta e fagioli. Peppino, il nostro capo, la sera ci chiamò a rapporto per le istruzioni e le raccomandazioni del caso. Siccome al mattino successivo doveva andare a Viterbo per una faccenda da sbrigare, ci avvertì che alla cottura dei fagioli avremmo dovuto pensarci noi. Ci disse di metterli a cuocere presto e per tempo perché i fagioli cuociono lentamente, di assaggiarli ogni tanto e di toglierli dal fuoco quando li ritenevamo cotti. Egli sarebbe rientrato intorno a mezzogiorno, giusto in tempo per far cuocere insieme ai fagioli la pasta e poi servire a tavola il tutto. Al mattino, verso le nove, avevamo già acceso il fuoco da tempo e, appena partito Peppino, mettemmo sul più grande fornello la pentola con l’acqua e i fagioli preparatici dal capo per la cottura. Prima che l’acqua cominciasse a bollire, uno di noi ebbe la luminosa idea di aggiungere subito il sale, onde evitare che dopo ce ne fossimo dimenticati. Tutti d’accordo mettemmo nella pentola la bella manciata di sale che ritenemmo adeguata. Dopo un po’ cominciò l’ebollizione ed aspettammo parecchio prima di cominciare gli assaggi d’obbligo: verso mezzogiorno. Mentre la cottura procedeva, girovagando per la vasta cucina, qualcuno di noi rivide la pentola nella quale avevamo cotto il riso il giorno precedente e fece notare che ce ne era avanzato , già cotto tantissimo. Ci si penso un po’, ognuno per conto suo. La deduzione e la decisione fu unanime : al posto della pasta da aggiungere ai fagioli, si poteva mettere il riso già cotto e pronto, bastava solo farlo scaldare, sciogliere ed amalgamare con i fagioli già lessati. Verso le dodici e mezzo rientrò il capo. Gli sottoponemmo la nostra proposta e, seppure con qualche esitazione, la accettò. Tutti, uno alla volta, assaggiammo ancora qualche fagiolo: erano sempre crudi o quasi. Peppino si meravigliò non poco e ci chiese, una per una, tutte le operazioni che avevamo compiuto da quando avevamo messo avanti i fagioli. Quando gli dicemmo che avevamo aggiunto il sale fin dall’inizio, ci disse che il motivo della lenta cottura era quello. Tra interrogazioni, risposte e considerazioni varie, era passata l’una. I commensali, che al mattino erano usciti presto per una escursione sulla Palanzana, rientrati stanchi ed affamati, erano già radunati nel refettorio più affamati del solito. Verso l’una e mezzo, la cottura dei fagioli era ancora in alto mare. Con qualche stratagemma cercammo di guadagnar tempo in attesa che la minestra fosse pronta. Verso le due, dopo ripetuti assaggi, ci parve che i fagioli, ancora non del tutto cotti, cominciassero ad essere un po’ ammorbiditi ma non ancora mangiabili. Nel frattempo l’acqua di cottura era quasi finita e ne dovemmo aggiungere altra. Appena ricominciarono a bollire, aggiungemmo il riso già cotto, ma freddo, e cessò di nuovo l’ebollizione. Quando dopo un po’ riprese, a turno ci alternammo nel rimestare nella pentola i fagioli e il riso. Da noi a Vignanello, quando si fa una cosa e per quanto ti prodighi non riesci a cavare un ragno dal buco, gli anziani dicono: “Ma che te ne fai!” per significare che tutto è inutile. Anche per noi: niente da fare. I fagioli non ne volevano sapere di ammorbidirsi del tutto e i grumi o pallocchi di riso non c’era verso di ridurli di dimensioni o sbriciolarli, per quanto si erano compattati. Conclusione (sarà venuta fame anche a te che leggi, anche se avrai mangiato da poco): verso le tre servimmo il prodotto di una intera mattinata di cottura. Mancò poco che non ci tirassero dietro i piatti che erano di ceramica pesantissima, con dentro l’impasto informe e colloso di riso e fagioli. Parafrasando e modificando un po’ i versi che Dante mette in bocca al Conte Ugolino della Gherardesca, nella torre della fame, potremmo dire: “Poscia più della rabbia potè il digiuno”. La maggior parte dei ragazzi vuotarono il piatto o quasi e noi cuochi di turno ci riscattammo al termine del pasto servendo delle belle fette del pane di Lando, con sopra spalmato un abbondante strato di formaggini di cioccolata, “made in U.S.A”, elargiti dalla P.O.A., l’equivalente dell’attuale Nutella. I pasti di quei due giorni ci furono rimproverati fino al termine della vacanza da tutti i campeggiatori e dallo stesso don Luigi. Per punizione (ma noi dicemmo “in compenso”) ci vietarono per tutta la residua durata del soggiorno, di mettere piede in cucina per qualsiasi motivo e fummo esonerati per demerito dal servizio-mensa, “in perpetuo”.
Novembre 2011 Lillo
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