Giugno 2012
Pane nostro quotidiano
di Lillo Pacelli

Nel tardo pomeriggio, una volta la settimana, i miei giochi e le corse in mezzo alla Piazza e nei vicoli adiacenti, venivano interrotti dal richiamo di mia madre che mi doveva mandare a casa di Bianca ‘a fornara ad avvisarla che lei l’indomani avrebbe  fatto i’ ppane ‘a i’ pprimo forno.

Traduco e mi spiego, al tempo stesso: mia madre sarebbe andata, il giorno successivo, a portare il pane a cuocere al forno di Bianca, alla prima infornata, verso le quattro o le cinque del mattino.

Senza altri richiami, io interrompevo i giochi e di corsa mi precipitavo verso il Pozzo Musacchi e davo una voce sotto la finestra di Bianca: “Biancaaaa! So’ i’ ffiglio ‘a Immola! Ha detto mamma che dimattina fa i’ ppane a’ i’ pprimo fornooo!!”. Da dentro casa la fornara, che non si affacciava mai, perché già stava prendendo nota della prenotazione, mi mandava ad alta voce la risposta che già, da tutte  le volte che c’ero andato, conoscevo a memoria: “Va bbenee”. Non erano mai tante ‘e socce che andavano  a cuocere il pane al primo forno, specialmente in inverno.

Tornato in Piazza, vicino casa, sempre di corsa, sotto la finestra chiamavo la mamma, che quando si affacciava, anche se ormai al 99% già conosceva la risposta, mi chiedeva come tutte le altre volte: “Che ha detto ‘a Bianca!”. Di rimando io, invariabilmente, mentre già correvo via, le rispondevo: “Ha detto che va beneee”.

Tornavo per un po’ con i miei compagni a giocare sulle scale e sul piazzale davanti alla Chiesa fino a quando suonava l’Ave Maria e si andava tutti a casa. Era quella l’ora in cui la maggior parte dei contadini, soprattutto nei mesi invernali, facevano ritorno alle case dopo una giornata intera di lavoro in campagna.

 

Da queste due “istantanee”, di noi bambini che giochiamo in piazza e dei contadini che tornano a casa con le vanghe o le zappe sulle spalle, non è difficile, anzi verrà quasi spontaneo per molti lettori di queste righe, principalmente a quelli che hanno alcune primavere (!) sulle spalle come chi sta scrivendo e che quando andavano a scuola, già dalle Elementari, hanno imparato a memoria una delle tante poesie dei poeti dell’800, come: Il sabato del villaggio di Leopardi, in cui si legge: “…i fanciulli gridando su la piazzola in frotta, e qua e là saltando fanno un lieto romore, e intanto riede alla sua parca mensa fischiando il zappatore…”

 

Scusate la divagazione. Nel frattempo le famiglie, ma potrei dire, un po’ tutto il paese, con il rientro dei bambini e dei genitori, si sono riunite in casa. La mamma in breve ha imbandito la tavola e si mangia. Appena terminata la cena che quella sera veniva consumata un po’ in fretta e dopo aver dato una sistematina alla meglio alla mensa, mia madre cominciava i preparativi.

Metteva a scaldare un po’ d’acqua sotto il camino, sul treppiede, in una pentolina. Scioglieva il sacco della farina che stava in un angolo della cucina di fianco alla madia (‘a mattra), e dentro questa cominciava a passare al setaccio (‘a seta) la quantità di farina necessaria per l’impasto del pane, che di solito doveva durare una settimana. Quando l’acqua si era scaldata, ma non troppo, vi sbriciolava dentro con le mani perché si sciogliesse, la pagnottina del suo lievito che aveva messo da parte la settimana precedente.

Ogni donna aveva il suo lievito, figlio del lievito della settimana avanti, chissà da quanti anni, che però ogni settimana si rigenerava da quello messo da parte sette giorni prima. Infatti ogni volta che faceva il pane, dall’impasto ne prendeva una manciata della grandezza di una rosetta, lo poggiava, coperto di farina asciutta in un angolo della madia e lì lo lasciava a lievitare e ad indurirsi fino alla settimana successiva.

Quando il lievito si era ben disciolto ed amalgamato con l’acqua tiepida, lo versava in mezzo alla farina ammucchiata in un lato della madia. Nella buchetta scavata con le mani nel mucchio, impastava il lievito disciolto nell’acqua con circa la metà della farina, fino ad ottenere un impasto morbido ed omogeneo. A questo punto il lievito era messo.

Copriva l’impasto con il resto della farina e, con un gesto che aveva qualcosa di rituale, di religioso, oserei dire, di sacro, sfiorava con l’indice della mano destra la farina di copertura, imprimendo il segno della croce, dicendo contemporaneamente: San Martino t’accresci.

L’impasto, detto in vignanellese ‘a masonata, restava a lievitare nella madia ben chiusa e durante le notti invernali, protetta dal freddo con una coperta, fino alle prime ore del mattino.

Molto a bon’ora, verso le 3.30, Bianca accendeva il fuoco all’interno del forno, lo alimentava con più di qualche fascio di frasche e faceva il giro delle case delle donne (‘e socce) che si erano prenotate per andare a cuocere il pane alla prima infornata, i’ pprimo forno.

Si fermava sotto le finestre e chiamava per nome ad alta voce; non c’erano ancora fuori dalle porte e dai portoni né campanelli né tantomeno citofoni. Quando era certa di essere stata sentita o vedeva accendersi qualche luce all’interno della casa, diceva, con un tono di voce abbastanza alto per essere sicura di essere sentita: “Comma’, commanno adessooo!”.

Queste erano le testuali e rituali parole che usavano allora tutte le fornare, per voler significare: “Comare!! Ti comando adesso: è ora che cominci ad impastare il pane!”.

Al perentorio ordine, mamma si alzava, accendeva il fuoco o riattizzava i carboni che dalla sera precedente covavano ancora accesi sotto la cenere e metteva a scaldare in un pignatto, l’acqua necessaria per impastare il resto della farina della masonata.

Quando l’acqua era poco più che tiepida, versandola un po’ alla volta nella giusta quantità, operazione che richiedeva esperienza e perizia, impastava tutto il mucchio di farina, sia quello già impastato con il lievito, sia quella che era stata messa in copertura. Era questo il momento cruciale dal quale dipendeva la buona o cattiva riuscita del pane.

Tutto l’impasto doveva essere a lungo ben lavorato, affinché farina, acqua e lievito fossero tutti ben amalgamati. Il tutto, mia madre, lo lasciava riposare e lievitare ancora per circa un’oretta durante la quale sbrigava in casa qualche faccenda o , se era inverno, se ne tornava a letto.

 

Trascorso questo tempo, preparava ‘a tavola ‘e ‘i ppane per allineare le pagnotte a finir di lievitare. Stendeva sulla tavola, lunga circa un metro e mezzo e larga una settantina di centimetri, il telo, fatto di stoffa di canapa, molto ruvido, consistente ed abbastanza lungo, (un po’ più del doppio della tavola), perché doveva servire da sottofondo alle pagnotte, a tenerle separate tra le sue pieghe una dall’altra durante la lievitazione finale ed a coprirle tutte quando venivano portate al forno e, a cottura avvenuta, mentre venivano riportate a casa.

Quando la tavola era pronta, mamma apriva la madia, lavorava ancora un po’ l’impasto e poi cominciava a distaccare da esso la quantità necessaria per una pagnotta. Una alla volta la impastava, la arrotondava o la allungava, le dava la forma desiderata e, man mano che le uscivano dalle mani, le sistemava tra le pieghe del telo, ben separate l’una dall’altra ed allineate.

 

Terminate la preparazione e la separazione di tutte le pagnotte, con il lembo del telo che ancora era un po’ più lungo della tavola, le ricopriva.

In inverno o quando a suo giudizio (anche qui era fondamentale la perizia della donna), la temperatura interna della casa era un po’ bassa, la mamma stendeva sulla tavola una coperta per tener calde le pagnotte, facilitando così la lievitazione. In estate, invece, se la temperatura era troppo alta, lasciava le pagnotte scoperte affinché lievitassero più lentamente.

Prima di preparare le ultime pagnotte, la mamma lasciava da parte una certa quantità dell’impasto, una piccola parte del quale le serviva per rinnovare il lievito da lasciare per la settimana ventura e l’altra, molta di più, per preparare le pizze da portare a cuocere al forno prima di infornare il pane.

 

La prima pizza veniva portata a cuocere appena finite di sistemare le pagnotte sulla tavola. Era la cosiddetta pizza a ‘ppiccià. In una teglia o due (i ttesti) rotonde, ben unte con olio d’oliva, si stendeva la pasta in uno stato dello spessore vicino al mezzo centimetro, ci si spandeva sopra un filetto d’olio e si portavano al forno. La fornara che da qualche ora aveva acceso il fuoco, aveva già sbraciato, cioè aveva allargato il mucchio di brace e l’aveva già sparpagliata su tutto il suolo del forno per far distribuire in modo uniforme il calore. L’interno era ben caldo, la legna ancora ardeva in un angolo e illuminava la volta di mattoni refrattari che per il forte calore diventavano quasi bianchi. Era quello il segnale che il forno era arrivato, cioè si poteva infornare per la cottura.

Altro segnale che il forno aveva raggiunto la temperatura giusta per cuocere, era quando la fornara, osservando la cupola del forno, vedeva scendere delle minutissime scintille e diceva alle socce: “E’ ora de comincià a ‘nforna, casche ‘a rosa!”.

Allora con la pala di legno, dal manico pure di legno, lungo circa tre metri, venivano infornate le pizze, che siccome cuocevano in poco tempo, a forno con lo sportello di imbocco aperto, quando il fuoco era ancora acceso, cioè era ‘ppicciato, si chiamavano appunto ‘e pizze a ‘ppiccià.

Erano le prime ad essere cotte e mangiate appena sfornate e ancora bollenti, o durante la mattinata insieme ad un pezzo di pecorino come companatico, un morso all’una ed uno all’altro, o dopo averle tagliate ed aperte in senso orizzontale, seguendo la linea mediana dello spessore, con spalmato all’interno un abbondante strato di ricotta, allora, da noi, si conosceva solo quella, che è ancora la più gradevole, anche se… “Che roba!” Erano comunque squisite in tutti e due i modi.

Nelle stesse teglie, appena liberate, la mamma stendeva la stessa quantità di pasta per preparare ‘e pizze co’ i’ ppommidoro . Anche queste si cuocevano prima di infornare le pagnotte. Sulla pasta ben stesa nella teglia, si spremevano un po’ di pomodori rossi, di quelli piccolini appesi a grappoli al soffitto di un magazzino o di un altro locale, sparsi qua e là con tutta la buccia e i semi, qualche spicchio di aglio fatto a pezzetti, una sfiorata di polvere di fiori di finocchio, trattati alla maniera vignanellese e sul tutto un bel filetto d’olio d’oliva.

 

Così preparate, aromatizzate e piacevoli anche da guardare, venivano portate al forno, ormai molto caldo, e cotte, questa volta con l’imboccatura chiusa dallo sportello, per non far disperdere il calore.

Cotte quest’ultime e portate a casa, veniva portato al forno il pane che nel frattempo aveva ben lievitato al punto giusto ed era pronto per essere infornato. C’era però da compiere ancora un’ultima operazione: tutte le pagnotte dovevano essere mercate, cioè marchiate con uno stesso segno di riconoscimento, diverso da soccia a soccia.

Il nostro “marchio di fabbrica”, i’ mmerco, per mamma, l’avevo realizzato io con un rocchetto di legno, di quelli che allora usavano in gran quantità i sarti ,intorno a cui era avvolto il filo per cucire a macchina. Uno dei due bordi arrotondati del rocchetto, naturalmente senza filo, lo avevo inciso tutto intorno con il coltello, con una certa precisione e ad intervalli regolari, in modo da ottenere una ruota dentata, somigliante ad un ingranaggio. Avevo così ottenuto una sorta di timbro che si impugnava per il bordo non inciso e, che impresso su ogni pagnotta , rendeva riconoscibili le nostre, da tutte le altre dell’infornata.

Questo accorgimento del marchio, era formidabile e funzionale perché, mettendo a cuocere nella stessa infornata alcune decine di pagnotte, quando si sfornavano, se non ci fosse stato il segno di riconoscimento, sarebbe stato difficile , per non dire impossibile, che ogni donna avesse potuto riprendere le stesse pagnotte che lei aveva portato a cuocere, con tutti i risvolti che ne potevano derivare, primo fra tutti quello igienico.

Infornato il pane e trascorso il tempo che la fornara ormai sapeva misurare chissà come anche senza consultare l’orologio, ma le venivano in aiuto i rintocchi di quello del campanile della Collegiata, veniva aperto il forno. Era un momento che aveva, ogni volta, un qualche cosa di emozionante e di trepidante attesa, per vedere come era venuto i’ ppane : alto, basso, poco cotto, stracotto, bruscato, bianco, colorito e non so di quant’altri tipi o tonalità di colore.

Terminati i commenti di rito che gratificavano o mortificavano la panificatrice o, a volte la fornara, lodata o biasimata per non aver sfornato al momento giusto piuttosto che troppo presto o troppo tardi, ogni sòccia se ne tornava a casa con il “suo” pane, comunque fosse riuscito, poiché il responso dei merchi era inappellabile.

 

Ora, come quando aveva portato da casa la tavolata con le pagnotte crude e appena lievitate, ad ogni massaia, per riportare a casa le pagnotte cotte, occorreva un’altra volta i’ ccoròglio.

Era questo un supporto che si otteneva con un fazzolettone, una scialletta, o una stoffa qualsiasi che poteva essere arrotolata o attorcigliata, in modo da ottenere una specie di ciambella, con tanto di ampio buco al centro, largo all’incirca come i due indici e i due pollici, delle due mani aperte, che si toccano con la punta. Questo coròglio si metteva appoggiato sulla testa eretta e fungeva da cuscinetto ammortizzatore e stabilizzante, tra la testa della donna e la tavolata di pagnotte  che vi veniva posizionata sopra in perfetto equilibrio.

 

Era curioso osservare l’abilità delle donne e, al tempo stesso, la loro disinvoltura, nel camminare spedite, affiancate o in fila indiana, sull’acciottolato o sul selciato sconnessi, delle strade e nei vicoli di allora, su tratti in discesa o in salita, spesso anche ripidi.

Con le tavolate di pane in equilibrio sulla testa, salivano a volte più rampe di scale talvolta anche ripide, come lo erano quelle del vecchio centro storico, e contemporaneamente parlavano, si voltavano, gesticolavano, tenevano per mano o in braccio (su ‘n collo), qualche figlio ancora piccolo, come se non portassero niente addosso: la tavolata era come un tutt’uno con la loro testa.

Scusate se mi permetto una divagazione sull’uso del coròglio, che, è opportuno precisarlo, era usato unicamente dalle donne. Oltre all’uso che ne veniva fatto con le tavolate del pane, esso era usato per portare, andata e ritorno, sulla testa le brocche d’acqua attinta alle fontane pubbliche, i secchi pieni degli avanzi dei pasti o di altri alimenti da portare alla stalla per governare il maiale, i fasci di legna per accendere il fuoco nel camino, le sacchette di legumi dalle aie, i grossi canestri pieni di abbondanti cibarie per i familiari che stavano lavorando in campagna, ‘e sdigliatore, (che erano delle grosse canestre di vimini con due manici), piene di frutta, erbaggi, fiori di zucche, castagne o altro da trasportare.

 

In tutti gli anni della mia fanciullezza ed anche un po’ più avanti, fino a quando non sono cambiate le abitudini di vita, le donne hanno usato i’ ccoròglio per trasportare in equilibrio sulla testa oggetti più o meno pesanti ed ingombranti. Quotidianamente si vedevano per le vie del paese i loro continui andirivieni e mai, dico mai, ho visto cadere a terra dalla testa di una sola di esse il fardello che vi portava sopra.

La divagazione è stata forse un po’ lunga, ma i’ ccoròglio se la meritava tutta!

Ora torniamo al pane. Le pagnotte, arrivate a casa, si lasciavano sulla tavola ben allineate e scoperte fino a quando non si erano raffreddate; solo allora venivano riposte in bell’ordine nella madia e, per una settimana, quello era il pane nostro quotidiano per tutta la famiglia, buono e profumato, da non sprecare fino all’ultimo boccone, perché era veramente ed anche biblicamente “guadagnato con il sudore della fronte”.

 

Intanto tra una faccenda e l’altra, per la donna panificatrice, già in piedi da tempo, era giunta l’ora di svegliare i figli che dovevano andare a scuola e se invece ce l’aveva grandi ed erano andati in campagna a lavorare insieme al padre, anche lei li raggiungeva e trovava ad accoglierla bocche piene di acquolina, pronte a far fuori con un’ottima dose di appetito: pizze a ‘ppiccià, pizze co’ i’ ppommidoro e magari anche alcune fette di pane, tagliate da una pagnotta, ancora un po’ calde e croccanti, con in mezzo ad insaporirle qualche rocchjo o un pezzo ‘e bearello bruscati sopre ‘a brace, infilzati ad un frustino di nocciolo o di altro arbusto, usato come spiedo.

 

Abbiamo detto poc’anzi, che il pane, riposto e conservato nella madia, si manteneva buono e fragrante per tutta la settimana.

Poteva tuttavia accadere talvolta, soprattutto in estate, che l’ultima pagnotta diventasse un po’ dura, soprattutto per gli anziani, la cui dentatura molto spesso era alquanto insufficiente, poiché andare dal dentista per una protesi era un lusso che soltanto pochi benestanti potevano permettersi.

Però sempre a tutto, o quasi, anche allora c’era un rimedio, rispettando comunque un punto fermo: il pane non si doveva sprecare.

Provvedeva a risolvere il problema, l’inventiva, mescolata alla saggezza, della donna di casa: “la necessità aguzza l’ingegno”.

Per qualche pasto programmava, a seconda dei gusti, delle bocche da sfamare e della quantità di pane a disposizione: panzanella, acqua cotta, pansanto, pane mollo da i ffacioli, da i cceci o da i’ merluzzo o altri piatti altrettanto appetitosi che non sempre si preparavano soltanto per necessità o ripiego forzato.

Quindi tutto era in regola : il pane non era stato sprecato e i commensali saziati e soddisfatti.  I pensieri di tutti però, erano già rivolti al mattino successivo, quando sarebbe cominciata la settimana del pane nuovo, con le nuove pizze a ‘ppiccià o co’ i’ ppommidoro e nuove pagnotte appena sfornate e calde e fragranti.

 

Lillo