Proverbi e detti della “Tombola Vivente” del Natale 2010
I proverbi, almeno così si dice, sono la saggezza dei popoli e ogni popolo, ogni nazione, ogni paese ha i suoi. Provengono da secoli di esperienze di vita, da abitudini, da osservazioni attente di tanti fenomeni e comportamenti personali, e da tutto quanto concorre ad identificare e diversificare una società da tutte le altre. All’interno di queste identità, ve ne sono altre, però in miniatura, sparse in una vallata, in un’isola, in un piccolo paese. Ognuno di questi piccoli mondi ha i suoi particolari proverbi e modi di dire che rispecchiano la loro cultura, il loro lavoro, le loro tradizioni. Ecco perché nella Tombola Vivente Vignanellese, avente come filo conduttore i proverbi e i “detti” paesani, affiorano persone, animali, piante, giochi, lavori, arnesi, toponimi locali, parole dialettali, alimenti, ed altre realtà locali irripetibili e introvabili in altri contesti. Quindi dal numero 1 al 90, ma si potrebbe tranquillamente andare oltre, e forse ci andremo, le affermazioni, le contraddizioni, le sottili allusioni e tutti i paragoni, sono unicamente di nostra proprietà e ne dobbiamo andar fieri: sono le nostre radici, la nostra storia. Da quanto ho visto, sentito, vissuto e toccato con mano nel pomeriggio del 26 dicembre 2010, i Vignanellesi tutti hanno molto gradito e apprezzato l’iniziativa e la sua “messa in scena”. Sono tanti quelli che hanno chiesto agli organizzatori di pubblicare per intero i “testi” di quanto i “titolari” dei novanta numeri, dal palco, hanno declamato in vignanellese con entusiasmo. Però, nella fretta dell’estrazione e nella curiosità di osservare e fare commenti sul “titolare” del numero estratto, spesso è passato troppo rapido il “proverbio” o il “detto”, pur essendo stato scandito con foga e passione. Proprio per accontentare quanti hanno perduto o non ben afferrato e memorizzato i testi ed ogni parola, e quanti sanno di aver ben compreso, ma vogliono essere confermati in questa loro convinzione, si è pensato di riproporre tutte le diciture abbinate ai 90 numeri. Aggiungeremo di volta in volta, se necessario, qualche chiarimento e qualche spiegazione per le più astruse parole dialettali più vecchie e ormai in disuso che soprattutto molti giovani, non hanno mai sentito pronunciare e delle quali non conoscono, nemmeno lontanamente, il significato e la loro origine. Ma ora cominciamo.
N. 1 “Quanno tone, da ‘che parte piove” “Quando tuona, da qualche parte piove” Se c’è in giro qualche voce o notizia su un fatto o su una persona, c’è chi ci crede ciecamente, e chi ci crede con qualche riserva e chi non ci crede affatto. Qualcuno dice: “Sicuramente è vero”; un altro: “Sarà vero? Chissà”. Altri: “Ma non è possibile”. La saggezza popolare dice: “Se molti parlano di qualcosa (il tuono), qualcosa è certamente accaduto (la pioggia)”.
N. 2 “A uffo nun cante cieco” “Senza essere pagato, non canta nemmeno un cieco” E’ quasi ovvio il senso dell’affermazione: senza essere pagato, nessuno svolge alcuna attività, fosse anche poco impegnativa, come il cantare da parte di un cieco.
N. 3 “Chi da gallina nasce, in tera ruspa” “Il pulcino nato dalla gallina, ruspa e razzola in terra come la madre che l’ha generato” Qui affiora il fatalismo paesano, secondo il quale, fin dall’antichità, era quasi una legge di natura che il figlio svolgesse la stessa attività dei propri genitori. Questo proverbio riferito a qualche individuo, figlio di genitori adusi a certi comportamenti, pur se si comporta di solito in modo diverso da loro, prima o poi seguirà le orme dei suoi.
N. 4 “Chi tanti pali sompe, chiduno glie se ficche in...” “A chi tanti pali salta, qualcuno gli si conficca in…” In questo proverbio cominciamo a trovare qualche vocabolo prettamente dialettale: “sompe” è voce del verbo “sompare”. Traduco: salta, è voce del verbo saltare. Sta questo detto a significare che chi osa avventurarsi molto frequentemente in imprese rischiose e gli vanno tutte bene, prima o poi qualcuna non gli va a buon fine e perde in un attimo tutto quanto aveva acquisito con tutte le altre che gli erano andate sempre bene.
N. 5 “Du nun c’è i’ guadagno, ‘a rimissione è certa” “Dove non c’è il guadagno, la remissione (la perdita) è certa” Non è necessaria alcuna spiegazione particolare perché l’enunciato è chiaro: se in un lavoro non c’è un vantaggio, la perdita, magari soltanto quella del tempo impiegato a portarlo a termine, è sicura.
N. 6 “Quello fa più sodo che vangaticcio” “Quell’operaio nel lavorare, lascia più terreno non lavorato, che vangato o zappato, pronto per la semina” Questo proverbio è poco comprensibile per i non addetti ai lavori. E’ molto antico ed è fortemente legato alla lavorazione del terreno agricolo “a mano”, ma è invece di facile comprensione per i nostri contadini. Il (terreno) sodo o “a sodo”, era il termine con il quale veniva definito un terreno “vergine” mai lavorato o rivoltato da un attrezzo agricolo (vanga, zappa, aratro, bidente o piccone) o che nell’annata agricola, appena trascorsa, era stato coltivato a grano o a orzo. Il vangaticcio è invece il terreno lavorato con qualcuno degli attrezzi suddetti, pronto per la semina per la nuova stagione. Un terreno è ben lavorato quando il contadino, con la vanga (da cui trae origine la parola vangaticcio), rovescia zolla per zolla e manda sottoterra tutte le erbacce, o gli sterpi o le stoppie del grano che prima ricoprivano il terreno e lascia ben in vista in superficie, il terreno che prima stava in profondità, che è privo di erbe infestanti e ricco di sostanze fertilizzanti (l’humus). Per cui, se il contadino non lavora bene, il “sodo” non sparisce del tutto e il “vangaticcio” non è ben fatto, cosa che non permette una buona semina e quindi un buon raccolto. Per assimilazione o metafora, come spesso avviene con molti proverbi, il detto va a significare il modo di agire di una persona poco precisa che potremmo qualificare anche con un altro modo di dire più semplice e forse anche più comprensibile: “Quello nel parlare, fa più danno che utile.”
N. 7 “‘A femmina de bon parto, prima fa femmina e doppo maschio” “La donna che è una brava partoriente, al primo parto fa femmina e al secondo maschio” E’ un proverbio che lascia il tempo che trova. Naturalmente non ha alcun fondamento, poiché, ormai è risaputo, il sesso del nascituro dipende da molte e diverse componenti.
N. 8 “I confetti ‘nso fatti pe’ l’asini” “I confetti non sono fatti per i somari” Sta a significare che le gentilezze, le prelibatezze e le maniere delicate, non sono adatte e non si addicono a chi, essendo rozzo, grossolano e poco raffinato come un asino (salvando naturalmente l’asino) non se le merita.
N. 9 “I ppommidori, da ‘a Valle o da ‘a Piazza, du pigli pigli, so’ tutti ‘na razza” “I pomodori, o della Valle, o della Piazza, dovunque li prendi, sempre pomodori sono” Penso che il messaggio di questo detto sia un po’ troppo disfattista, nel senso che, sia esso riferito a cose o persone, in sostanza ci dice che l’essenza di una cosa o di una persona, indipendentemente dalla sua provenienza e forma (riferito a cose), o dalla sua cultura, personalità o estrazione sociale (riferito a persone), sono tutte uguali.
N. 10 “I’ zsacco vòto nun se regge dritto” “Il sacco vuoto non sta in piedi, non si tiene eretto” Evidentemente è riferito ai tempi in cui, ci dicevano i “vecchi”, c’era ‘a fame. Quando cioè non c’era il benessere, le comodità e l’abbondanza di cibo, soprattutto, che abbiamo ora. L’efficienza fisica, necessaria per il lavoro del tutto manuale, specie in quegli anni, dipendeva unicamente dalla quantità e dalla qualità di alimenti che un “lavoratore” ingurgitava. Per cui chi mangiava poco ed aveva lo stomaco (il sacco) vuoto, non aveva vigore, non era in grado di svolgere alcun lavoro e, caso limite, stava malfermo in piedi.
N. 11 “Meglio ‘a faccia roscia che ‘a panza moscia” “E’ meglio aver la faccia rossa (per la vergogna di aver chiesto o elemosinato cibo o altro), che la pancia vuota o floscia (per non aver chiesto nulla a qualcuno)” E’ una affermazione un po’ cruda ed opinabile dei nostri antenati, per molti dei quali era fondamentale o quasi, avere la pancia piena, non solo, ma integravano il proverbio suddetto con un altro: “Basta che il corpo è pieno, come de paglia come de fieno”.
N. 12 “Mmazza mmazza, so tutti ‘na razza” “Ammazza ammazza, dove prendi prendi, sono tutti uguali” Rimando alle considerazioni espresse per il N. 9, che anche come enunciato non è sostanzialmente affatto diverso.
N. 13 “Moriammazzato i’ mmonno e chi lo gode” “Accidenti al mondo e a chi lo gode” Penso sia l’espressione di qualcuno che avendo fatto, costruito o realizzato qualcosa con tutte le attenzioni e le precauzioni possibili, è costretto a costatare che quanto da lui realizzato non è come sperava. Allora impreca e dice: “Accidenti al mondo e come va!”.
N. 14 “Panza pizzuta nun porte cappello”. “La pancia (il pancione di una donna incinta) con la parte anteriore non troppo arrotondata, ma un po’ appuntita (pizzuta), ha dentro di sé una femmina, che negli anni in cui il detto fu creato, essendo tale, non portava il cappello” Come il N.7, anche questo proverbio, fa riferimento alle donne incinte. E’ molto evidente che uno dei pilastri della civiltà contadina era il procreare e l’incremento della famiglia. Qui viene messa in risalto la credenza popolare, che aveva un certo seguito, secondo la quale, una pancia di donna incinta di tale conformazione, non aveva in sé di certo un maschio. Certo non potevano, nemmeno lontanamente, pensare che oggi con un piccolo esame medico, possiamo conoscere il sesso del nascituro, mesi e mesi prima del lieto evento.
N. 15 “Fischio fischietto, pe’ troppo fischià, ‘a giubba e i’ corpetto se fece rubbà” “Un tale che girava sempre fischiettando distrattamente, tutto preso dal fischiare, non si accorse nemmeno quando gli rubarono addirittura gli indumenti che aveva indosso” Questo proverbio si riferisce ad una persona semplice, un po’ incantata ed ingenua che cammina, sempre fischiettando, senza curarsi di cosa gli accade intorno e addirittura sulla sua persona stessa. Fuori dalla metafora, potremmo definirlo un sempliciotto, un povero… babbeo.
N. 16 “A commatte co’ te, è meglio ‘nna a curì co’ l’asino” “Piuttosto che avere a che fare con te, è meglio andare alle corse con un somaro” E’ lo sfogo di qualcuno che ha rapporti quotidiani con un incapace, per cui constata che è preferibile, piuttosto che aver a che fare con un tale individuo, portare alle corse un somaro che, per quanto inadatto a galoppare, talvolta potrebbe anche vincere, mentre con un partner di queste caratteristiche, si perde sempre, anche il tempo.
N. 17 “Ci ho un sonno che me ccogghje!” “Ho talmente sonno che mi sento cadere a terra, le gambe mi si piegano” Spieghiamo innanzitutto: ccogghje. L’azione o la voce del verbo accogghjarsi è propria del somaro che, dopo aver lavorato una intera giornata in campagna, quando la sera viene ricondotto alla stalla è talmente stanco che si accogghja, cioè si accuccia, si accovaccia sulla paglia perché le zampe non lo sostengono più. La persona che parla nel detto, è stanca morta proprio come il somaro ed ha tanto sonno che si accascerebbe su un qualsiasi giaciglio. Sta per cadere dal sonno, proprio come dice Dante in un suo famoso verso: “e caddi come corpo morto cade”.
N. 18 “Cento misurate e un taglio solo” “Prima di tagliare qualcosa o di prendere qualche decisione, misurare e rimisurare, e pensare e ripensare” Nella vita pratica di ogni giorno, questo adagio ci consiglia di meditare a lungo prima di prendere una decisione definitiva o di misurare, non per una volta soltanto, ma tante volte prima di effettuare il taglio di qualcosa. Facendolo in modo affrettato, potremmo pentirci poi della nostra leggerezza.
N. 19 “M’ha’ fatto du’ palle comme ‘e bocce ‘e i’ Mmolesino” “Mi hai fatto due palle, come quelle che stanno sopra alla Porta del Molesino”. Espressione che viene spesso detta con un tono un po’ alterato, contro chi da tempo ci sta disturbando, fino al limite della sopportazione. Il paragone è rafforzato dal fatto che le dimensioni delle due “bocce” poste sopra alla Porta del Molesino sono note a tutti i Vignanellesi. Detto più urbanamente suonerebbe più o meno cosi: “Ora mi hai proprio stufato”.
N. 20 “Quello jè birbo comme i’ ppesafero” “Quella persona è furba come il pesafero” La parola “quello”, con cui inizia questo detto, la ritroviamo spesso, in principio di molti detti che esamineremo ed è sempre riferita a qualche persona che è oggetto dell’osservazione e nel momento in cui se ne parla, sta ad una certa distanza. Il “pesafero” nel dialetto vignanellese è un insetto tutto nero, lungo intorno ai 7-8 centimetri, con due elitre che gli coprono l’addome, pure esse nere, ed ha due antenne lunghe più o meno quanto il suo corpo. E’ un coleottero che vive nelle campagne e non so perché viene paragonato ad una persona furba. Il “birbo”, almeno tutte le volte che mi è capitato di sentirlo adoperare, come in questo detto, sia da interpretare esattamente in senso contrario al suo significato, non affatto furbo.
N. 21 “Vado a ffoco comme i girelli” “Sono rosso dalla rabbia, tanto da andare a fuoco come le “girandole” dei fuochi artificiali” Lo dice chi è talmente adirato per qualcosa, che si sente rosso in viso e tanto agitato da sentirsi bruciare tutto, proprio come le “girandole”dei fuochi artificiali che si vedono nelle piazze in occasione delle feste per i Santi Patroni.
N. 22 “Quello magne pure i’ ffero callo” “Quella persona mangerebbe pure il ferro arroventato” Il detto è evidentemente riferito ad una persona ingorda e vorace che, pur di mandar giù qualcosa, ma meglio tante cose, arriverebbe a mangiare, per assurdo, anche un pezzo di ferro arroventato
N. 23 “Finché ‘a bocca magne e i’ cculo renne, moriammazzate ‘e medicine e chi le venne” “Fino a
quando la bocca mangia, il fisico è sano, si digerisce tutto e si va
al bagno (rende) regolarmente, accidenti alle E’ un’altra massima che, come al solito nei tempi passati, faceva riferimento ai bisogni corporali: il mangiar bene, il bere a volontà e quel che ne consegue, fino alle più intime evacuazioni. In sostanza ci dice che: se si sta bene, non serve né il dottore, né le medicine e, naturalmente, neanche il farmacista.
N. 24 “Fora, quello che fa’ fatichi!” “In campagna, qualsiasi lavoro fai, è fatica!” L’affermazione non fa che ribadire quel che i contadini ,dicono da sempre: chi va in campagna non fa che faticare dalla mattina alla sera. Ma la fatica sarebbe ben poca cosa se fosse remunerata o almeno in qualche modo gratificato chi la sostiene. E’ forse, più che altro, quest’ultimo aspetto quello che lascia, più della fatica, l’amaro in bocca ai nostri contadini.
N. 25 “Gire più quello che un sòrdo farzo” “Fa più giri quella persona, di una moneta falsa” Ritorna il “quello”. Chi lo afferma è una persona che sta osservando o parlando di qualcuno che poco gli piace per i suoi comportamenti scorretti, intriganti e falsi. Esso è tenuto a distanza dai benpensanti che lo evitano e lo emarginano come ci si disfà di una banconota falsa.
N. 26 “I ccavalli, se vedono dall’arivo!” “I cavalli (bravi), si vedono alla fine della corsa” Il proverbio ci consiglia di non essere affrettati nei giudizi e di non etichettare a prima vista, né positivamente né in senso contrario, qualcuno o qualcosa in base alle prima impressione. Per esprimere un giudizio definitivo, vediamolo alla prova e qualifichiamolo in base ai risultati raggiunti.
N. 27 “I Ccorbi so’comme e ‘e foglie, chi li butte li riccoglie!” “I colpi (le imprecazioni e i malauguri), sono come le foglie: si posano sotto allo stesso albero da cui sono cadute. E’ come dire: chi lancia un malaugurio contro qualcuno, se ne vedrà, prima o poi, colpito egli stesso. E’ l’equivalente dell’antico detto: “Chi di spada ferisce, di spada perisce”.
N. 28 “Tocche llegà l’asino du vo’ i’ padrone” “ Bisogna legare l’asino dove vuole il padrone” Ci consiglia di rispettare le decisioni del prossimo, specialmente quando queste non ci riguardano e non ci arrecano danno. Se legare un asino in un certo punto ci viene richiesto dal proprietario o dal responsabile di esso, anche se la cosa non ci trova consenzienti facciamola. Di un eventuale danno, non saremmo noi i responsabili, ma chi ce l’ha ordinato ed imposto.
N. 29 “Panza piena, nun pense da quella vota” “La pancia piena non pensa a quella vuota” E’ una sentenza un po’ amara, ma il più delle volte è fedele alla realtà. Chi è sazio ed ha soddisfatto tutti i suoi bisogni,quasi sempre si disinteressa e non ha affatto a cuore i problemi e le esigenze di chi non ha il necessario per vivere.
N. 30 “Quello è ruzzo comme l’occhjo ‘e i’ zappone!” “Quello è rozzo e arrugginito come l’occhio della zappa (i’ zappone)” Per i non contadini, spiego che “l’occhio della zappa” è il foro ovale o rotondo, una specie di anello dello stesso materiale della zappa, che sta nella parte alta di questa, in cui sta infilato il manico. E’ la parte dell’arnese che durante i lavori è sempre vicina e in mezzo al terreno, per cui venendo a contatto con zolle, sassi e umidità, è sempre sporca e arrugginita. Per antonomasia, la ruggine è sinonimo di incuria, rozzezza e sgarbatezza anche nei comportamenti.
N. 31 “Ragno ragno,quanto busco e quanto magno!” “Ragno ragno, quel che guadagno me lo mangio tutto” Il ragno credo che sia stato scomodato soltanto per esigenze di rima con guadagno e “magno”. E’ l’affermazione di una persona a cui piace vivere alla giornata e mette in pratica la teoria del “Carpe diem”.
N. 32 “Qué è comme ‘a canzona ‘e l’ovo” “Questa discussione è lunga e senza fine o soluzione, come la filastrocca del: chi è nato prima tra l’uovo e la gallina” Il detto si mette in campo quando tra più persone si protrae una discussione tanto a lungo, che ogni volta, quando sembra di essere giunti al termine, qualcuno ritorna a parlare del punto da cui si era partiti. Come quando si discuteva, così, per puntiglio, per stabilire chi fosse esistito prima: l’uovo o la gallina: Non si giungeva mai ad una conclusione accettata e condivisa dai contendenti.
N. 33 “E’ più facile che i’grillo magne i’ ttordo, che ‘a socera co’ ‘a nòra vanno d’accordo” “E’ più probabile che un grillo mangi un tordo, che la nuora e la suocera vadano d’accordo” Non ha bisogno di molti commenti. E’ risaputo che, tranne qualche caso sporadico, suocera e nuora sono sempre una contro l’altra.
N. 34 “‘A pianta va piegata quanno è ciuca” “La pianta va guidata quando è piccola” “Ciuco” e “ciuca”, nel nostro dialetto non hanno niente a che fare con il “ciuco”, vocabolo con il quale spesso è definito il somaro o asino, che sia. Ciuco e ciuca, indicano un bambino ed una bambina ancora piccoli. L’affermazione popolare è chiara: una persona va indirizzata (piegata) sulla retta via, già da bambina.
N. 35 “‘Na campana baste pe’ cento frati” “Una campana è sufficiente per cento frati” Evidentemente questo adagio si riferisce all’ambiente di un convento, al momento di andare a tavola. Io assimilerei la campana che suona alla pentola che sta cuocendo la minestra per un pasto. Come la campana basta per tutti, così la minestra dovrà bastare per tutti i commensali, anche se le scodelle potranno essere più o meno colme. Il frate cuciniere, è risaputo, diceva a chi si lamentava della scarsità del vitto: “Questo è quello che passa il convento!”.
N. 36 “Na pila ‘ntronata va cent’anni per casa” “Una pentola malridotta ed ammaccata (‘ntronata), viene usata in casa per cento anni e non si rompe mai Nel parlar popolare e familiare, la pentola intronata e malridotta rappresenta un familiare con vari acciacchi e di salute cagionevole che, proprio per questo,viene trattato con tutti i riguardi ed esso stesso si risparmia. Grazie a tutte queste premure, vive magari più a lungo di altri componenti il nucleo familiare, di sana e robusta costituzione che essendo tali, ricevono ed hanno per sé stessi poche premure, per cui si logorano e giungono alla fine prima della suddetta “pila ‘ntronata”.
N. 37 “A lavà l’asino ce se rimette l’acqua e i’ sapone” “A lavare l’asino ci si rimette, si spreca l’acqua e il sapone” Sta a ribadire che certe premure che si hanno verso persone ignoranti e poco sensibili, sono inutili, come è inutile perder tempo ad insaponare e lavare un asino, che non apprezza affatto una cortesia a lui concessa e, che al limite, gli può anche dare un po’ di fastidio.
N. 38 “Che pòzzi morì de sabbito, così ‘a domenica te cantono i ppreti!” “Che tu possa morire di sabato, così il giorno dopo, domenica, ti canteranno i preti alla messa cantata” E’ un augurio un po’ scherzoso, rivolto col sorriso sulle labbra e magari dando una pacca sulla spalla, ad una persona, come se fosse una maledizione, poiché gli si augura la morte. L’augurio, anche se la morte è una brutta cosa, ha un finale quasi piacevole perché, morendo di sabato, il funerale si svolgerebbe il giorno successivo, domenica, quando la messa sarebbe “cantata”, cioè solenne e il morto se ne andrebbe nell’aldilà con tutti gli onori accompagnato anche dai canti. Il detto viene sempre declamato in tono scherzoso e con un sorriso rallegrante.
N. 39 “E’ cresciuto ‘n antro frate. Brodo lungo e seguitate!” “E’ cresciuto, è arrivato, un altro frate, allungate il brodo e andate avanti” Siamo di nuovo in un convento di frati. Il padre-guardiano va in cucina ad avvertire il frate-cuoco che è arrivato un altro frate e pertanto lo consiglia di allungare il brodo della minestra per farlo bastare per tutti i commensali. Non era raro, molti anni fa, che oltre ad un altro frate, di passaggio, anche qualche viandante chiedesse ospitalità nel convento per trascorrere la nottata e mangiare qualcosa. Siamo all’odierno: “Aggiungi un posto a tavola, ché c’e un amico in più”
N. 40 “Figlio mio, fino a che perdi gioca, ma si te vo’ rifà, smetti!” “Figlio mio, se stai partecipando ad un gioco d’azzardo, fino a quando perdi continua pure a giocare, ma quando arriva il momento che giochi perché ti vuoi rifare, smetti” Il gioco d’azzardo è stato sempre un pessimo vizio che spesso ha mandato in rovina intere famiglie. Nel nostro detto , un padre che probabilmente in gioventù, ha giocato anche lui, e ne è uscito con le ossa rotte, prova a dare un consiglio al figlio: al gioco si può vincere e si può perdere. Quando però ti prende la voglia di rifarti, smetti subito, perché quello è il momento che ti porterà alla rovina definitiva.
N. 41 “Giusto sta ‘mpiccato a La Storta”. “La persona giusta per antonomasia, Giusto appunto, l’hanno impiccato a La Storta” La Storta è una piccola frazione alle porte di Roma. Il detto vuole dirci che trovare una persona giusta e corretta è impossibile, perché l’unica che esisteva si chiamava Giusto e, proprio per questo, per eliminarlo, l’hanno impiccato in un luogo che nel nome stesso è l’esatto contrario de “La giustizia”.
N. 42 “I’ ttordo tocche cchjapparlo quanno passe!” “Il tordo bisogna prenderlo quando passa!” Gli antichi Romani dicevano: “Carpe diem”, cioè “prendi al volo il giorno che passa”. Cogli l’occasione buona appena ti capita; chissà se ne avrai di nuovo l’opportunità.
N. 43 “I’ peggio porco, ‘a meglio lestra” “Al peggior maiale è toccata la miglior lettiera” In dialetto vignanellese, ‘a lestra è lo strato di paglia che si spande sul pavimento del recinto del maiale sul quale l’animale si sdraia per dormire e riposare. L’espressione sta per dire che spesso ai peggiori individui, capitano le migliori occasioni ed i vantaggi, che ad altri, meno fortunati e magari più meritevoli, vengono negati.
N. 44 “Male ‘a vanga, peggio i’ zappone” “E’ faticoso adoperare la vanga e ancor di più la zappa” E’ un altro detto “agricolo”. La civiltà contadina è molto variegata e perciò ricca di riferimenti. Da questo apprendiamo che il lavoro dei campi era molto faticoso sia che si adoperasse la vanga o la zappa o, potremmo continuare, qualsiasi altro attrezzo da lavoro.
N. 45 “Meglio i’ vino callo che l’acqua fresca” “Per una bevuta è meglio il vino, seppure caldo, che l’acqua fresca” Altro riferimento alle giornate di lavoro nei campi. La constatazione ha un fondamento reale. Quando, ma molti anni fa, il lavoro nei campi era molto duro perché svolto unicamente a mano, senza l’aiuto di alcun mezzo meccanico, purtroppo, la povertà imperava e il cibo scarseggiava. Un contadino giornalmente consumava molte energie che spesso il povero e scarso cibo non riusciva a fornirgli completamente. Spesso, durante le giornate “in opera”, un bel supplemento di calorie glielo forniva una bella bevuta di vino, benché non proprio fresco e che pertanto era da preferire ad una, seppur abbondante, bevuta di acqua fresca.
N. 46 “Povera me che so delli scordati, comme ‘a cipolletta attorno i’ ffoco” “Povera me, che sono fra i dimenticati, come la cipolla attorno al fuoco” Non sono riuscito a trovare una spiegazione plausibile o una situazione particolare in cui possa calzare questo detto, né alcuna persona che sia stata in grado di illuminarmi in qualche modo. Per cui se qualche lettore di queste righe è in grado di fornirmi qualche suggerimento, gliene sarei molto grato.
N. 47 “A morì nun se morirà, ma i ttribboli quanti!” “Anche questa volta non si morirà, ma quante sono le tribolazioni da sopportare!” Il detto fa riferimento a situazioni estreme in cui una persona può trovarsi. Capitano momenti di difficoltà, di angoscia profonda e non si sa dove “battere la testa”. Allora si riflette e ci si consola pensando: Forse, ancora questa volta, a morire non si morirà, ma le tribolazioni quante!
N. 48 “A ccommatte co’ te è comme ‘nna a fa’ a cura co’ llepre” “A combattere, ed avere a che fare con te, è come andare a fare una corsa con una lepre” Evidentemente chi dice queste parole è una persona che è stanca di avere rapporti, anche se soltanto verbali, con qualcuno che vuole avere sempre, in ogni caso, partita vinta. Ragionare o cooperare con lui è tutto tempo sprecato e impresa inutile, come andare a fare una corsa con una lepre, la quale ci sopravanzerà sempre.
N. 49 “Ammezzo nun è bbono manco i’ rosario!” “In società, insieme, non andrebbe detto nemmeno il rosario!” Un po’ irriverente, viene scomodato addirittura il rosario. Chi lo afferma ha chiaramente avuto esperienze molto negative in rapporti di lavoro in società, con persone che lo hanno del tutto deluso ed amareggiato. Pertanto, sconsiglia di imbarcarsi in esperienze in comunione con altri, perché l’esito sarebbe certamente negativo.
N. 50 “‘A tera è bassa!” “Per lavorare la terra bisogna piegarsi, chinarsi perché sta in basso, in tutti i sensi” Il tono è triste e un po’ deluso, molto più di quanto sembrano dire le parole. L’affermazione esprime tutta l’amarezza di chi fa il contadino e mette in mostra la delusione, ed il disprezzo che ha anche chi questo lavoro compie per procurarsi da vivere.
N. 51 “’E cose a lungo pigliono vizio” “Certe abitudini e comportamenti, portati per le lunghe, prendono una brutta piega” Alcuni comportamenti, chiaramente non esemplari, ripetuti a lungo, se diventano abitudinari ed entrano a far parte del viver quotidiano, determinano un andazzo delle cose che non è corretto.
N. 52 “Chi più le fa, lo fanno priore” “Chi più ne combina, riesce ad ottenere posti di comando”. E’ un’amara constatazione di esperienze vissute dalle persone, soprattutto di quelle appartenenti ai ceti più bassi della società. Il priore era in passato il primo di qualche organizzazione, il superiore di una comunità monastica o un personaggio che era a capo di un settore importante delle amministrazioni dei Comuni nel periodo del Rinascimento. Nei tempi moderni, a volte accade che alcune persone, le più disinvolte e spregiudicate, ne combinano di tutti i colori e, nonostante ciò, anzi, forse proprio per questo, raggiungono posti di responsabilità e di governo.
N. 53 “Ci ho da fa’ de più de chi more de notte” “Ho tanto da fare, più (dei parenti) di chi muore di notte” Espressione molto triste e piuttosto funebre. Quando qualcuno muore durante la notte, così qui si dice, dà molto da fare ai suoi familiari, perché mentre altri parenti, amici e vicini dormono e non possono dar loro un aiuto, essi debbono sobbarcarsi tutte le incombenze relative alle prime cose da fare, dal punto di vista burocratico e logistico, fino alla preparazione di manifesti, fiori e disposizioni per il funerale del caro estinto.
N. 54 “Da quello glie fete pure i’ ggallo” “A quella persona fa le uova pure il gallo” L’azione di “fetare” (o fedare) è propria della gallina quando fa l’uovo (che in embrione contiene appunto il feto, il nascituro pulcino). “Fetare” è parola dell’italiano antico, ormai caduta in disuso, ma che è frequente trovare ancora in molti dialetti. La persona, il “quello”, di questo detto, è evidentemente molto fortunata, perché oltre ad avere le galline che (naturalmente) gli fanno le uova, ha anche il gallo che, si suppone, gli ”feta”, compiendo qualcosa di eccezionale e strabiliante.
N: 55 “Decchj, c’emo rimesso l’inguento e ‘è pèzze!” “In questa impresa o lavoro, ci abbiamo rimesso l’unguento (la pomata) e le pezze (le garze e le bende) per le fasciature” E’ anche questa un’amara considerazione, ma cominciano ad esserci un po’ troppe. Qualcuno ha investito in una impresa o commercio, molte sue risorse, però il ricavato finale è stato oltremodo deludente. Come se qualcuno nel curare un malato, avesse messo a disposizione unguenti, pomate, disinfettanti, garze e bende per disinfettare e per le fasciature, però sarebbe stato tutto inutile: il malato non è guarito.
N: 56 “Decchj, ce magnemo l’ovo benedetto” “Qui, con tutto il da fare, arriveremo a mangiarci l’uovo benedetto, cioè impiegheremo fino a Pasqua” Chiaramente chi parla qui, è impelagato in un lavoro, in un’impresa della quale non si prevede a breve la conclusione, tanto da dire: “Prima di finire, arriveremo a mangiare l’uovo di Pasqua”, cioè fra tantissimo tempo.
N: 57 “Che te possa braccicà su i’ pporco!” “Che ti possa abbracciare il maiale!” E’ una battuta molto scherzosa, che si rivolge a qualcuno come per dirgli: “Accidenti a te e a quanto sei simpatico e burlone. Come saresti buffo e tale da suscitare risate in tutti quanti, se un maiale si alzasse dritto e ti abbracciasse”.
N: 58 “Che ce pozza sciampicà ‘a Ntonta ‘a Piciala!” “Che ci possa inciampare ‘a Ntonta ‘a Piciala!” ‘A Ntonta ‘a Piciala (Antonia, detta la Piciala) è una delle tante persone vignanellesi alle quali veniva affibbiato un soprannome per motivi, per lo più occasionali, momentanei, dei quali con il passare degli anni, si è persa la memoria, soprattutto della motivazione. Antonia, sarà un po’ lungo per i non addetti ai lavori, era una fornaia, cioè gestiva uno dei tanti forni a legna sparsi tra i vicoli di Vignanello e precisamente quello in via Casalino, poco prima di imboccare via Solalizio, che si trovava a pochi metri dalla via appena nominata che i Vignanellesi anziani conoscono come “I’ vivolo ‘i zsordati”. Il lavoro di Antonia, “fornara”, le imponeva di alzarsi la mattina molto presto, sempre “a bon’ora”, quando era ancora notte fonda, specialmente in inverno, per avvertire le donne, (‘e sòcce), che dovevano portare a cuocere il pane nel suo forno, che era ora di alzarsi e cominciare a lavorare la pasta e preparare le “pagnotte”. Augurare ad una persona che la “fornara” potesse inciampare nel suo corpo, a quell’ora, non era un gran bell’augurio, perché voleva dire che girando per i vicoli ‘a Ntonta, se lo sarebbe trovato davanti ai suoi piedi, al buio, tanto da inciamparci, perchè morto o ucciso durante la notte.
N. 59 “E’ meglio ‘nna fòra quanno piove, che ‘rrivà a briscola a cinquantanove!” “E’ miglior cosa andare in campagna (a lavorare) quando piove, che arrivare, giocando a carte a “Briscola”, a terminare la partita a 59 punti” Come il “detto” N. 58, anche questo è da spiegare, al meglio, a chi non gioca a carte e, segnatamente a “Briscola”, con le carte napoletane, che, per capirci meglio, sono quelle con i semi: Denari , Coppe, Spade e Bastoni. A Briscola si può giocare in due o in quattro, “a compagno”, cioè due contro due. Le carte che valgono punti sono: i quattro Assi, 11 punti ciascuno; i quattro Tre, 10 punti ciascuno; i quattro Re, quattro punti ciascuno; i 4 Cavalli, tre punti ciascuno e i 4 Fanti, due punti ciascuno. Il monte punti di ogni partita perciò è di 120 punti. Per aver partita vinta, un giocatore o una coppia, debbono raggiungere, al minimo, 61 punti, lasciandone agli avversari 59, che per soli due punti sono tuttavia perdenti. Per i contadini, dover andare a lavorare in campagna quando piove è un gran brutto affare; tuttavia, sostiene il detto, è sempre meglio che arrivare a 59 punti giocando a Briscola, perché rimane l’amaro in bocca per aver perso la partita per due soli punti. La cosa invece non sarebbe accaduta se la partita fosse terminata 65 a 55 , o 70 a 50 o anche con una differenza di punti ancora maggiore. In tali casi ci sarebbe poco da recriminare per i perdenti, mentre terminare la partita 59 a 61, lascia la rabbia di aver perso per un’inezia e rimangono tanti: “se avessimo giocato quella carta, invece di quell’altra, avremmo potuto vincere”.
N: 60 “Ci ho ‘na fame che vado a vento!” “Ho una tal fame che mi sento portar via dal vento” Lo dice una persona che ha tanta voglia di mangiare che si sente quasi sbandare, come se fosse in balia del vento.
N. 61 “Quanno ‘a montagna ha fatto cappa, scappa villano che ecco l’acqua!” “Quando alla montagna (per noi il monte Cimino) si copre la punta con delle nuvole nere e gravide di umidità che coprono la cappa (la faggeta), è meglio che i contadini delle nostre campagne rientrino presto a casa perchè la pioggia è vicina” E’ un proverbio che ha poche smentite; infatti in qualsiasi stagione, quando la faggeta del Cimino è avvolta da nubi, la pioggia non tarda a cadere sui paesi dei dintorni: Soriano, Canepina, Vallerano, e Vignanello.
N. 62 “Piano e costa, è tutta robba nostra!” “La pianura e tutti i terreni in pendio che vediamo sono tutti nostri”. Da quanto ho sempre sentito dire, il detto dovrebbe aver avuto origine quando un ragazzo vignanellese, un po’ sbruffone, si fidanzò con una ragazza di fuori. Portandola per la prima volta a Vignanello e volendo far bella figura con lei, essendo un po’ spaccone, mentre da un punto panoramico ammiravano il nostro paesaggio campestre, disse alla sua promessa sposa: “Saremo ricchi perché quello che vedi, piano e costa è tutta roba nostra”.
N. 63 “Quella jè brutta comme ‘a strega ‘e Cenciano!” “Quella donna è brutta come la strega di Cenciano!”. Cenciano è una contrada di campagna, ai confini estremi di Vignanello, tra Corchiano e Fabrica di Roma. E’ una zona un po’ impervia, con dirupi, fossi, macchie e ruderi di abitazioni e insediamenti umani molto antichi. Evidentemente tutte queste caratteristiche, hanno generato nella fantasia dei nostri avi, la credenza che vi abitasse una strega dall’aspetto non molto gradevole. Appunto a questa immaginaria strega, viene paragonata “quella” che è oggetto di osservazione, da parte di chi parla, nel suddetto adagio del nostro paese.
N, 64 “I’ villano nun è sicuro, si nun porte ‘a roncetta dietro i’ cculo” “Il contadino non è sicuro, se non porta la roncola dietro al sedere” Io credo che di questo detto, si possano azzardare due interpretazioni. La prima, la più letterale, è quella che: fa sentire un contadino sicuro di sé e al riparo da sgradite sorprese, quando ha con sé la roncola, un attrezzo che durante il suo lavoro porta sempre appesa ad un gancio (l’uncino), fissato sul retro, alla cinghia dei pantaloni: per ogni evenienza la può usare, come arma impropria, per difendersi da chi gli può arrecar danno, sia esso persona, animale o cosa. La seconda interpretazione, credo la più verosimile, vuol significare che il villano “è sicuro” nel senso di “è certo”, cioè ormai è “consacrato contadino”, soltanto quando porta abitualmente, qualsiasi lavoro stia svolgendo in campagna, agganciata sul retro dei pantaloni “’a roncetta”, la roncola.
N. 65 “Pozza fa’ i’ nnome d’i’ padre, senza trovacce ‘a capoccia” “Che tu possa fare il segno della croce senza trovarci la testa” Non sono riuscito a trovare una spiegazione o una situazione particolare in cui possa calzare questo detto e nessuno che sia stato in grado di illuminarmi. Per cui, se qualche lettore di queste righe è in grado di fornirmi qualche ragguaglio, gliene sarei grato. Si tratta in ogni caso di un augurio non proprio gradevole.
N. 66 “Lascia sta’ quella roncetta, essa nun conosce manco i’ padrone” “Non usare quella roncola, essa può far male anche al suo proprietario che la sa usare” E’ un invito rivolto ad ogni persona, a non adoperare la roncola, o qualsiasi altro attrezzo con cui non ha affatto dimestichezza, perché può far del male anche al suo stesso proprietario, che pur la adopera sempre e la sa usare nel giusto modo.
N. 67 “Nun te mmalà che l’ospedale è pieno” “Non ti ammalare che l’ospedale è al completo” Questa espressione è diretta a chi vuole intraprendere qualche attività o procurarsi qualcosa, credendo di essere il primo che lo fa. Le sue aspettative andranno incontro ad una amara e sicura delusione, perché da tempo, tante altre persone lo hanno preceduto.
N. 68 “Quello du nun ce ‘rive ce mette i’ ccappello” “Quella persona, dove non riesce ad arrivare, ci lancia il cappello” Si parla di una persona oltremodo intraprendente, che vorrebbe accaparrarsi tutto o avere voce in capitolo in ogni attività. Dove non può farlo, o per mancanza di tempo o di capacità, ci lancia o ci appoggia sopra il suo cappello, come a significare che è in suo possesso, proprio come quando in treno, per occupare un posto a qualche amico ritardatario, appoggiamo sul sedile un nostro oggetto o indumento.
N. 69 “Quanno i’ pporco è satollo, rivorde i’schifo” “Quando il maiale è sazio, rovescia il trogolo, anche se ancora contiene del cibo” Il maiale, per la gente, è l’animale che mangia più di tutti, fino alla completa sazietà ed anche di più. Quando ha raggiunto questo stato, non potendone più, con il grugno, butta all’aria il trogolo e lo rovescia anche se ancora c’è dentro da mangiare. A volte, quando qualche persona che ha tutto, non si accontenta di ciò che ha e disprezza quanto ha avuto dalla vita, viene spesso paragonata a questo animale.
N. 70 “Te faccio girà comme un triccaiello” “Ti faccio girare su te stesso come una trottola” Il “triccaiello” è un giocattolino di altri tempi, la cui descrizione non è delle più semplici. Era di legno, alto 7-8 centimetri, ricavato da un’anassicella tonda del diametro uguale all’altezza. Veniva, questa, lavorata al tornio per ricavarci un oggettino simile ad una rapa. Tutto intorno aveva delle scanalature circolari, che servivano per avvolgerci uno spago della lunghezza di circa un metro. Tenendo legato ad un dito un capo dello spago, il triccaiello si lanciava verso terra con un gesto rapido e roteava a lungo in equilibrio sulla punta, costituita da un pezzettino di chiodo infisso nella punta stessa. In sostanza funzionava come una piccola trottola. Il detto era rivolto a qualcuno che nel parlare o nel fare qualcosa era noioso e fastidioso tanto da disturbare tutti in continuazione, fino a che qualcuno dei disturbati, lo minacciava di dargli un ceffone tanto forte , da farlo girare a lungo proprio come un triccaiello.
N. 71 “Quello nu magne pe’ nun cacà” “Quella persona, non mangia per non aver bisogno di andare al bagno” Il detto è sempre riferito ad una persona talmente avara, tirchia o spilorcia, come si usa dire da noi, che non mangia per non aver il bisogno di andare al bagno, incombenza che, pur non richiedendo spese in denaro o altro, ha bisogno tuttavia di un dispendio di tempo e di energie.
N. 72 “Quello è comme l’ormo: nun è bbono né pe’ i’ ffoco né pe’ i’ fforno”. “Quella persona è come l’olmo: non è buono né per accendere il fuoco nel camino,né per riscaldare il forno”. E’ riferito a persone poco adatte a qualsiasi attività, proprio come era ritenuto il legname dell’olmo, lento a bruciare e di scarso potere calorico. Tuttavia alle spalle di chi declamava tale aforisma,c’era sempre qualcuno, meno esigente e più possibilista, che sottovoce aggiungeva, anche un po’ polemicamente: “Però quanno è stato portato a casa, è bbono pe’ i’fforno e pe’ ‘a casa”.
N. 73 “Quello lo compre chi nu lo conosce!” “Quell’individuo lo compera soltanto chi non lo conosce!” E’ l’ennesimo “quello” a cui si fa riferimento. Sta passando davanti a chi parla, una persona poco raccomandabile, che potrebbe essere avvicinata o scelta per svolgere una comune attività, soltanto da chi non la conosce a fondo.
N. 74 “Decchì morimo co’ i’ fiore d’i’ cculo comme ‘e cucozze!” “Qui moriamo con il fiore attaccato come le zucche!” Era la frase che più spesso si riferiva a bei ragazzi, ma principalmente a belle ragazze di eccessive pretese, soprattutto matrimoniali, che per il troppo pretendere, nulla stringevano e restavano nubili. Questa volta, ce lo metto io il “quello” o il “quella”, fanno la fine delle zucche che dopo una magnifica fioritura, se nessuno le raccoglie, appassiscono, avvizziscono e nessuno si cura più di loro.
N. 75 “Sa’ Rocco, chi magne prima nun magne doppo!” “ San Rocco, chi mangia prima non mangia dopo” Sarebbe come dire: se hai una certa quantità di cibo a disposizione e non di più, se la mangi prima non ne avrai più per il dopo, perché l’hai già finita. Di contro però, c’è l’altro antico adagio che recita :”Chi mangia prima, mangia due volte!”. Quale dei due avrà ragione?
N. 76 “Me costi più tu che ‘na figlia femmina!” “Mi costi più tu di una figlia femmina (da maritare)” Erano proverbiali i cerimoniali, i tempi e i costi di alcuni anni fa, per maritare una figlia. Anche adesso, non è che la cosa sia tanto semplice, sia nei rituali un po’ complicati, che per tutto l’apparato non poco dispendioso. Nella memoria dei piu “granni”, credo sia ancora viva l’esilarante commedia in dialetto genovese, che anni fa venne trasmessa dalla RAI, in cui recitava, quasi da solo, il bravissimo Gilberto Govi, attore dialettale genovese, dal titolo: “Che s’ha da fare per maritare una figlia!”
N. 77 “Da i’ pporco malusato, quello che fa glié vene pensato” “Al maiale abituato a comportarsi male, ciò che fa, gli viene pensato che lo facciano anche gli altri” L’espressione vuole significare che una persona che agisce male, pensa che anche gli altri si comportino allo stesso modo e pertanto diffida di tutti. E’ l’equivalente del detto calabrese che recita : “Il ladro si sogna sempre che gli rubano la camicia”.
N. 78 “Dall’ucello jotto gliè crepette i’ ggozzo!” “All’uccello ghiotto (ingordo), scoppiò lo stomaco” E’ questo un proverbio, noto dappertutto, in varie versioni, di cui la più usata è: Chi troppo vuole nulla stringe. Nel nostro caso si parla di un uccello al quale, per il troppo mangiare,è addirittura scoppiata l’ingluvie. Ognuno è libero di cercare riscontri della metafora con la realtà umana di ogni giorno.
N. 79 “Emo fatto i’ ggiro ‘i pperdono!” “Abbiamo fatto il giro del perdono!” Di solito queste parole vengono pronunciate da più persone che insieme, per recarsi in un certo sito, hanno percorso un tragitto interminabile, probabilmente anche sbagliato e perciò più faticoso del previsto. Sono tentato di azzardare un paragone, non so fino a qual punto valido: il giro del perdono mi fa pensare ad una penitenza assegnata da un confessore ad un peccatore, in espiazione dei peccati confessati, per ottenerne la remissione. La penitenza pertanto dovrebbe essere un percorso rapportato ai peccati che, se fossero tanti e gravi o pochi e veniali, dovrebbe essere commisurata ad essi.
N. 80 “Quello, nun tire si nu ccoglie” “Quel cacciatore non spara se non è sicuro di centrare il bersaglio” Altro proverbio che fa riferimento ad un utilitarista. Molte persone non fanno alcun gesto, grande o piccolo che sia, senza la previsione sperata di una contropartita adeguata. E’ l’esemplificazione del detto latino: “do ut des”, che tradotto dà: io ti do un qualcosa affinché, tu che la ricevi, me ne dia in cambio un’altra, almeno equivalente, ma meglio se superiore, a quella che io ti ho dato.
N. 81 “Comme se balle se sòne!” “Come si balla si suona” Nel significato più letterale, questo detto, è molto simile ad altri che già abbiamo commentato. Ci dice che spesso ci si comporta, nell’agire, come gli altri si comportano nei nostri confronti.
N. 82 “Da Lasciastà, glie freghettero pure ‘a moglie!” “Al signor “ Lasciacorrere” gli rubarono anche la moglie” Da noi, si raccontava che c’era un tale che per qualunque lavoro o servizio facesse, o desse ad altri qualcosa di sua appartenenza, quando i beneficiati gli chiedevano quanto o cosa gli dovevano dare, egli rispondeva invariabilmente: “Ma niente! Lascia stà!”. Fu quindi quasi automatico che lo soprannominassero: “Lasciastà”. Però, lasciò sta’ talmente tanto, che gli portarono via anche la moglie!
N. 83 “Quello nun sa fa’ manco la “O“ co’ i’ bicchiere!” “Quello non riesce a scrivere nemmeno una “O“ maiuscola, con l’aiuto di un bicchiere che come essa è rotondo ed ha la stessa forma. Definisce, questo proverbio, una persona incapace di portare a termine qualsiasi compito o lavoro, fosse anche il più facile come scrivere una “O”, seppure soltanto ricalcarla seguendo il contorno di un bicchiere poggiato su di un foglio di carta
N. 84 “I’ più fregnone, porte sempre i’ Cristo e i’ linternone!” “Il più ingenuo, semplice e sprovveduto, in processione porta sempre sia la statua del Cristo, con un braccio, che una grossa lanterna con l’altro” Il detto sostiene che la persona più buona ed accomodante è quella che, oltre ai suoi, svolge anche compiti che spetterebbero ad altri. Si fa l’esempio di una processione, in cui ogni figurante sfila portando a braccia un solo “attrezzo”, sia esso una croce, una statuina, un labaro, una lanterna, una “pace”, una ghirlanda o un’altra cosa sola. Diciamolo ora in vignanellese: “Il più fregnone ne porta due!”.
N. 85 “I ccervelli de questa sorte, senza ‘e vite, ‘na fila ‘e botte” “Le
persone con cervelli di questa qualità, pur non avendo alcun vigneto
(la materia prima), riescono a riempire una fila di Nel detto si evidenzia come attraverso una intelligenza o una scaltrezza particolare ci sia chi, pur non avendo neppure un vigneto, riesce ad avere la cantina con una fila di botti piene di vino.
N. 86 “Pe’ un’apa ce va de mezzo tutto i’ ccupèllo” “Per colpa di un’ape, che non si comporta bene, ci va di mezzo (perde credito) tutto l’alveare”. Avrete già capito che “un’apa” è un’ape e “i’ ccupello “ è l’alveare di cui l’ape fa parte. E’ come dire: “Quel Vignanellese è un poco di buono, per cui tutti i Vignanellesi sono dei poco di buono”. Nel giudicare o, più semplicemente, nel qualificare le persone, non è corretto estendere le manchevolezze di un individuo a tutta la comunità di cui esso fa parte.
N. 87 “Quello ‘mmazzerebbe i ppidocchj pe’ levaglie ‘a pelle” “Quell’individuo ucciderebbe i pidocchi per scorticarli e poi impadronirsi della loro pelle” La sete di ricchezza di “quello”, supera il massimo consentito. Quale vantaggio può derivargli dall’appropriarsi dell’esigua e misera pelle che ricopre l’animaletto? Nessuna. Pertanto tale pratica che metterebbe in atto l’individuo in questione è solo da condannare.
N. 88 “L’aricotta vène comme so’ fatte ‘e fuscelle” “La ricotta prende la forma delle fuscelle che la contengono” La fuscella era il nome dialettale vignanellese dei piccoli contenitori costruiti con esili vimini intrecciati, della grandezza di un piccolo catino, in cui i “pecorari” mettevano a sgrondare la ricotta appena estratta dalle grandi caldaie di rame in cui lavoravano il latte appena munto. Era normale che la ricotta molle, appena estratta dalla caldaia, perdendo la parte liquida, “il siero”, e solidificandosi, prendesse la forma dei contenitori, appunto le fuscelle. Potremmo fare un parallelo tra questo detto ed altri già commentati: “Chi da gallina nasce in terra ruspa” o “Da ‘na janna, nasce sempre ‘na cerqua”.
N. 89 “Si eri un fascio ‘e frasche, t’eo dato foco” “Se eri un fascetto di sterpi, t’avevo bruciato” E’ l’espressione di qualche genitore, non soddisfatto dei comportamenti e della “riuscita” di una sua creatura, tanto da esternare l’iperbole o l’esagerazione di aver voluto dar fuoco al figlio se fosse stato un fascio di sterpi. Nel linguaggio un po’ troppo colorito del parlar popolano, c’erano anche di queste terribili esagerazioni, che peraltro mai sono state messe in atto. Erano sicuramente un eccesso di amore verso i figli.
N. 90 “Emo fenito l’ammezzato e da bea” “Abbiamo finito l’ammezzato e il vino da bere” L’ammezzato era un liquido bevibile, ma di certo un po’ di ripiego, costituito da metà vino e metà acqua; il “da bea”, era invece costituito unicamente da vino integrale non annacquato. Ho sentito spesso raccontare da anziani, ma da quelli nati prima del Novecento, che “prima”, quando la produzione di vino nel nostro paese era più scarsa di quella attuale, la quasi totalità del prodotto, per evidenti motivi di sussistenza, veniva venduto. Pochi erano i contadini che durante l’estate, potevano ancora avere in cantina del vino per poter fare “’na bella beuta”. Qualcuno utilizzava la rimanenza di vino (potabile), anche se un po’ torbido, del fondo-botte e lo allungava con acqua per ricavarne “l’ammezzato”. Altri, avendo esaurito anche le rimanenze e l’ammezzato, andavano in cantina, toglievano il tappo di sughero (i’ zsuro) da una botte, davano due o tre pugni alle doghe, per creare all’interno, con le vibrazioni provocate, un minimo di movimento dell’aria interna, avvicinavano allora il naso all’apertura della botte ed annusavano l’odore che ne usciva. Era quello il sostituto di una “bella beuta”! Qualcuno di questi ultimi, aspiratori dell’aroma del vino che fuoriusciva da una botte vuota, forse per primo avrà affermato: “E mo… emo fenito l’ammezzato e da bea!!”
Anche
noi, con l’estrazione del 90, abbiamo finito con la esemplificazione
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