giugno 2012

Tombola Vivente  N.  2  del  26  dicembre  2011
Commenti ed esemplificazioni riguardanti i detti e i proverbi e comunicazioni varie
di Lillo Pacelli

 

 

“E anche quest’anno gliel’emo fatta!”

Visto il successo ed il gradimento ottenuti tra i Vignanellesi e gli spettatori venuti anche da fuori, constatato che i numeri viventi si sono resi di nuovo disponibili, anzi entusiasti, e che gli organizzatori in seguito a quanto sopra detto si sentono spronati a continuare e, sicuramente a migliorare, come prima cosa, ripropongono, come lo scorso anno, tutti i novanta detti con le consuete note esplicative. Comunicano inoltre che stanno già lavorando per la prossima edizione.

Certo, averne messi insieme fino ad ora 180, non è stato semplice, quindi per i prossimi 90 bisognerà spremere ancor di più le meningi, fare più approfondite ricerche ed andare a pescare tra le chiacchiere che durante l’anno faremo con la gente, altri detti. Da queste pagine invitiamo, fin da adesso, tutti quelli che ne conoscono qualcuno ancora inedito a farcelo pervenire in qualsiasi  modo. I punti di riferimento crediamo che ormai li conoscete tutti, perciò vi ringraziamo in anticipo della collaborazione. Ora procediamo con la Seconda Tombolata.

 

 

N.  1  A piagne un omo morto so’ lacrime sprecate.

A piangere una persona morta, non ne vale la pena.

 

L’affermazione contenuta nel detto, in senso letterale, ha sicuramente più di qualche punto di contrasto con la realtà, poiché il più delle volte quando ci lascia per sempre soprattutto un parente o un caro amico, non è facile trattenere le lacrime. Per uomo morto, certamente in questo proverbio, si intende qualche evenienza o azione o affare che si è risolto in maniera non soddisfacente. Per cui se le cose sono andate in quel certo modo e ormai non è più possibile tornare indietro, tutte le recriminazioni sono inutili e il senno del poi è del tutto vano.

 

 

N.  2  Ha’ fatto comme l’asino ‘e Piciannonna, quanno ‘ea ‘mparato a campà senza magnà più, è morto.

Quella persona ha fatto, o farà, la fine dell’asino di uno che ero soprannominato Piciannonna. Dopo che  il padrone gli aveva  insegnato a non mangiare più, è morto.

 

Pare che a Vignanello, chissà quanti anni fa, un tale soprannominato Piciannonna, avesse un asino che lo aiutava nel suo lavoro nei campi. I tempi erano grami, il lavoro non gli rendeva molto e quindi per risparmiare, un po’ gradatamente ridusse la dose giornaliera di cibo al suo asino.

La bestia, non avendo la parola, non se ne lamentava e continuava a svolgere il suo lavoro, anche se sempre più con meno lena. Quando il padrone riteneva di averle insegnato, a forza di diminuirle la razione, quasi a non mangiare più, si era talmente indebolita che una mattina, andato Piciannonna alla stalla per condurla a lavorare in campagna, la trovò morta.

I vicini sentirono a lungo gli alti lamenti del proprietario: “Pora bestia mia! Mo che s’era abbituata e ‘ea ‘mparato quasi a nun magnà più, m’è morta!” Il detto è riferito a persone esageratamente parsimoniose che, in tutti i sensi e non solo nel mangiare, certo non muoiono, ma non danno sia nell’aspetto che nel ragionare, una buona immagine di sé.

 

 

N.  3  Cristo, manne i’ ffreddo secondo i ppanni!

Gesù Cristo manda il freddo a seconda dei panni che una persona ha per coprirsi.

 

A volte ci capita di osservare certe persone e constatare che pur con i pochi mezzi che hanno a disposizione, riescono a condurre una vita sempre serena e decorosa, senza soffrire né avvertire il benché minimo disagio delle difficoltà che a loro capitano, a volte, giornalmente.

Allora ci meravigliamo e diciamo che il Signore ci pensa e fa in modo che facciano sempre buon viso a cattiva sorte, così da risolvere nel migliore dei modi qualsiasi evenienza, sia pure essa la più negativa che possa toccar loro.

 

 

N.  4  Quello che nu strozze ‘ngrasse

Tutti i cibi che mangiati riescono a passare per la gola, una volta ingeriti, contribuiscono, quale più quale meno, a farci crescere fisicamente.

 

E’ un detto molto antico, risalente a quando i nostri antenati non riuscivano a riempire a sufficienza la pancia. Erano gli anni in cui un altro detto recitava : Baste che i’ corpo è pieno, comme de paglia comme de fieno. Il problema in quegli anni, era non tanto la qualità, ma la quantità.

 

 

N.  5  Te si magnato tutto i’ Pponte ‘i Ppèno e tutte ‘e Chiare Funtane.

Ti sei mangiato tutto il territorio compreso tra il Ponte ‘e ‘i Ppeno e le Chiare Fontane

 

E’ necessario dare un ragguaglio di toponomastica locale anche se limitatamente alle zone di campagna citate nel detto. Il Ponte ‘e i’ Ppèno e le Chiare Fontane, sono due località che insieme alla Rocca delle Sitélle,che si trova nelle immediate vicinanze, sono situate verso il limite orientale ultimo della contrada di Sudano, raggiungibile percorrendo fino al suo termine, la strada senza sbocchi che ha inizio sul lato destro del piazzale antistante il nostro Cimitero.

E’ una zona un po’ impervia e scoscesa che comprende due vallate coltivate dove è possibile a noccioleti e per il resto coperte  da macchie di querce e cerri e da un fitto sottobosco di rovi, erica, cornioli, agrifogli, corbezzoli, pungitopi, rose canine e , soprattutto muschi. Questi crescono sugli enormi macigni di tufo e selce disseminati lungo il corso del tratto terminale del Fosso di Maregnano, prima che esso confluisca nel più grande Fosso Zangola che, proprio in questo tratto prende il nome di Fosso delle Chiare Fontane. Poco più a valle infatti, il corso d’acqua è rimpinguato di abbondantissima acqua sorgiva, ora in gran parte incanalata in un acquedotto, che sgorga dalla ricca sorgente delle Chiare Fontane. La zona, credo che l’avrete capito (!), è abbastanza estesa, per cui chi se ne è mangiato tutto il valore, non è certamente uno sparagnino ma uno spendaccione.

 

 

N.  6  Te riveranno i ppidocchj d’ i’ ccore.

Ti arriveranno i pidocchi fino al cuore!

 

Non è certamente un bell’augurio indirizzato dal declamatore del detto ad una persona che gli sta vicino o gli passa davanti. I pidocchi sono insetti immondi che suscitano, al solo nominarli, sensazioni  di prurito, fastidio e disgusto. Sono, ma possiamo anche azzardare erano, dei parassiti del cuoio capelluto e delle parti più intime di coloro che ne erano affetti. Perciò augurare a qualcuno che gli arrivino fino al cuore, cosa peraltro impossibile, credo sia un gran brutto augurio.

 

 

N.  7..Sarà che que’ è ‘a cantina ‘e Massimino! Da mme nu’ me pare!

Sarà come dite voi, che questa è la cantina di Massimino! Ma proprio non mi pare!

 

Anni fa, era consuetudine per i gruppi di amici, andare a fare ogni tanto, per qualche ricorrenza particolare, delle merende o cene in cantina. A rotazione, si andava ora nella cantina di uno, ora in quella di un altro. Nel gruppo di cui qui si parla, quando era il turno di, chiamiamolo, Quintilio, egli ogni volta con un pretesto, evitava di mettere a disposizione la chiave della sua cantina. Una sera, andati a cena nella cantina di, diciamo, Pietro, fecero bere Quintilio più del solito, fin quasi a farlo ubriacare. Siccome lui, come al solito per ben figurare, la chiave della sua cantina la portava sempre in tasca, qualcuno dei suoi amici riuscì ad impadronirsene. Usciti dalla cantina di Pietro, fecero, nel buio della notte, un lungo giro ed alla fine si fermarono davanti alla cantina di Quintilio. Fu aperta la porta, si accese la candela e si cominciò a bere ed a cantare.

Quintilio, osservando l’ambiente che gli sembrava familiare, un po’ stordito dal troppo vino bevuto, ogni tanto chiedeva a qualche amico : Ma di chi è ‘sta cantina!? La risposta era sempre la stessa: Que’ è ‘a cantina ‘e Massimino! Come pure sempre la stessa era anche la controrisposta dubitativa di Quintilio: Booh! Sarà che qué è ‘a cantina ‘e Massimino! Soltanto il giorno dopo, quando il padre gli disse di essere andato in cantina e di essersi accorto della visita notturna dell’allegra brigata, il figlio si rese conto che gli amici l’avevano portato a far visita ed a fare una ricca bevuta, proprio nella sua cantina. Il detto viene a volte ancora declamato da colui al quale si vuol dar ad intendere una frottola che è l’esatto contrario di ciò che quella persona sa che essa sia.

 

 

N.  8  ‘Ncarta, pesa e porta a casa e digli da mmamma che so’ cirasa!

Incarta, pesa e porta in casa ed a tua madre dille che sono ciliegie.

 

Quasi certamente il destinatario del detto è un individuo che in seguito ad una sua cattiva azione, o simile, ha ricevuto, una contropartita ben più pesante, probabilmente una bella dose di percosse, se non bastonate addirittura. Chi gliele ha suonate, prima di lasciarlo andare, lo apostrofa, quasi scherzando e gli dice: “Queste che ti abbiamo dato, incartale, pesale e portale a casa ed alla mamma dille che sono le ciliegie che noi ti abbiamo regalato!”

 

 

N.  9  Vedi eh, Santa Marta glie fa lume da San Pietro

Vedi? Guarda che strano! Santa Marta illumina la strada a San Pietro!

 

Sicuramente davanti a chi pronuncia il detto stanno passando due persone che niente hanno a che fare con i santi nominati. Immagino che si tratti di due individui: il primo appare piuttosto fiacco, debole e male in arnese. Tuttavia, dà l’impressione con il suo atteggiamento volitivo e saccente di voler essere da guida e da esempio al secondo.

Questo seppur apparentemente più riservato, da come si vede anche a prima vista, è più ben messo del primo, ma lo lascia fare e non si cura affatto di quanto gli va dicendo, dimostrando col suo atteggiamento che si comporterà come dice lui, trascurando i consigli datigli, significando così che è lui a comandare.

 

 

N.  10  Che ha’ detto Memmo!?

Che cosa hai detto Memmo!?

 

Le poche parole del detto, sono parte di un episodio buffo, uno scherzo avvenuto anni fa a Vignanello, che ho sentito raccontare varie volte dagli anziani. Il fatto avvenne negli anni vicini al 1920 o giù di lì, nel periodo della grande crisi e recessione economica mondiale, da come dicono, ben più grave di quella che oggi stiamo attraversando.

Tra un gruppo di amici che stavano ragionando di come andavano le cose, uno disse: “Io, porca miseria, pe’ campa’ meglio, glie darebbe l’anima da ’r diavolo!” Un suo amico, Memmo, tutto tranquillo, come chi è sicuro del fatto suo, gli rispose: “E che ce vo’! Se si  contento, dimane a sera, tra ‘l luscro e i’ brusco ‘nnamo ggiù da ‘a Cupa, io te rippresento da ’r diavolo, tu gliè dì l’anima e esso te fa subbito diventà ricco.”

Peppe, così chiameremo l’amico, disse di sì e si diedero appuntamento, tutti, compresi gli amici, per la sera successiva, verso l’imbrunire alla Valle.

La sera dopo si ritrovarono, si avviarono su verso la vallata della Cupa ed entrarono in una delle tante grotte scavate nel tufo, di cui il crinale che sta tra Via San Rocco e giù fino all’ampia vallata della Cupa era traforato. Ancora di tutti i palazzi che oggi vediamo, non c’era nemmeno l’idea di costruirli: c’erano soltanto piante di nocciole nella vallata pianeggiante e arbusti e grotte lungo il pendio.

Memmo e Peppe con al seguito gli amici fidati, si addentrarono in una di queste grotte ed iniziò la cerimonia. Prima Memmo chiese a Peppe se era sempre della stessa intenzione della sera precedente e, ricevuta conferma, cominciò il suo, noi lo sappiamo, improvvisato rituale, cominciando a declamare, in un suo “latinorum” molto particolare, delle formule astruse ed incomprensibili per tutti, compreso lui stesso che le pronunciava.

Al termine, con tutta l’attenzione dei presenti concentrata soprattutto su di lui e su Peppe, esclamò con voce lugubre nel vuoto della grotta: “Allora Peppe, da ora “in avantis”, l’anima tua è “Perdèmus!!” Peppe, terrorizzato dalla voce cavernosa di Memmo, dal parolone o parolaccia, di cui non conosceva il significato, esclamò: “Che ha’ detto Memmo?!!”

L’interrogato rispose con una voce ancor più lugubre di prima : “Da ora in avanti, l’anima tua è perduta, è: Perdemus!!”; No! No! No!! Gnente perduta!! Gnente Perdemus!!” E così dicendo Peppe scappò verso l’uscita della grotta. Alcuni rovi penzolanti dal soffitto, mentre scappava gli si aggrapparono, come a trattenerlo, al ferraiolo (i’ ffaraiolo), un mantello a ruota molto in voga in quegli anni. Peppe credette che fosse ’r diavolo che volesse fermarlo per prendergli l’anima e continuò a correre sempre più terrorizzato da quel “Perdemus “, che Memmo aveva scandito così solennemente. E fuggendo lasciò brandelli di stoffa del suo ferraiolo attaccati alle spine. Ed ancora corre. A tutt’oggi, se qualcuno domanda a chi sta parlando con lui: “Che ha’ detto Memmo!?” lo dice per significare che non è in sintonia con quanto gli è stato appena detto, come a dire, con un altro nostro proverbio, molto più chiaro: “Il sordo che non sente a prima voce, è segno che il discorso non gli piace”.

 

 

N.  11  Dall’omo smaliziato, quello che fa glie vène penzato

Alla persona maliziosa, così come agisce lui, pensa che altrettanto facciano gli altri.

 

E’ un proverbio che, almeno nel senso e nel messaggio che vuole trasmettere, ha molte varianti verbali e mi pare che ne abbiamo già parlato da queste pagine. L’equivalente che non ha bisogno di altri commenti è: Il ladro si sogna sempre che altri vengano a rubargli la camicia.

 

 

N.  12  Tristo è quello piatto che ce mettono mano in quattro

E’ un brutto affare quando su un piatto in cui c’è del cibo ci si avventano quattro persone.

 

Secondo me “il piatto” in questo caso, vorrebbe far riferimento, nel linguaggio spesso figurato dei proverbi, ad un lavoro un po’ particolare che dovrebbe essere svolto da una sola persona. Per cui, se ci si dedicano contemporaneamente in molti, finiscono col darsi fastidio l’un l’altro, pregiudicando l’esatta esecuzione dell’opera. Dico questo perché ho sentito citare più di una volta il detto da persone anziane e di consumata esperienza, in contesti e situazioni simili a quella che ho sopra illustrato.

 

 

N.  13  Lo vo’?”, glie se dice dall’ammalati

“Lo vuoi ?”, si domanda agli ammalati

 

“Lo vuoi”, nel linguaggio semplice e popolare del nostro paese, sta per “lo gradisci ?”, riferito a qualcosa da mangiare.

I nostri antenati contadini non credo che usassero di queste sottigliezze per una persona di  famiglia adulta che stava bene in salute, perché in tempi e situazioni normali, ognuno mangiava quello che il convento passava e ciò che la donna di casa preparava. Non c’era da chiedere ad una persona, grande o piccola che fosse, se lo volesse, anche perché quasi sempre altro non c’era. Il “lo vuoi?” era quindi rivolto sempre ad individui che avevano qualche problema di salute o erano bambini piccoli o anziani , o erano ospiti di riguardo.

 

 

N.  14  Quella è comme ‘a locca pucinara

Quella donna è come una chioccia che si porta appresso, fa da guida ed è d’esempio ai suoi pulcini appena nati.

 

Si parla qui di una donna o, in senso lato, di una persona che è solita circondarsi di individui che la imitano, la seguono ovunque e ne fanno il loro punto di riferimento. Con un po’ di malizia, e credo che ce ne sia nel detto, oserei dire che questo è spesso riferito anche a persone che hanno un atteggiamento protettivo ed accentratore nei confronti di altre, perche sono un po’ presuntuose e troppo piene di sé.

 

 

N.  15  Si tu te porti bene fino a Pasqua, te porto a Centignano co’ ‘a barozza

Se ti comporti bene fino a Pasqua, ti porterò, per premio, fino a Centignano, a fare la poggiata, a cavallo di una barozza.

 

Molti anni fa, parlo di almeno un centinaio, i nostri nonni, il giorno successivo alla Pasqua, nel pomeriggio, andavano a fare “la poggiata ”, che era una merenda all’aperto in campagna, oggi diremmo un picnic. Il luogo di ritrovo comune per comitive di grandi, giovani e ragazzi, sia maschi che femmine, erano i prati e gli spazi aperti che allora circondavano la Commenda adiacente al bivio di Centignano e le campagne vicine. La maggior parte ci si recava a piedi, a gruppetti più o meno numerosi, portandosi appresso “cibarie e bibite”. I ricchi e i più benestanti, ci andavano in barozza. Era questo un grosso carro di legno, normalmente usato per trasportare grossi e pesanti carichi, e perciò molto capiente,che poteva essere a due o quattro ruote e trainato da uno o due buoi. Quindi promettere a qualcuno che se si fosse comportato bene fino a quel giorno, sarebbe stato condotto alla scampagnata in barozza , era un premio di non poco valore.

 

 

N.  16  I’ppollastro se spenne  quanno è morto

Al pollo si strappano le penne quando è morto.

 

Questo modo di dire era proprio delle persone anziane che “non se la passavano male” perché avevano “beni al sole”, in casa ed alla “Posta”. Il detto stava a significare, senza possibili fraintendimenti, che gli eredi si sarebbero divisi le proprietà dei loro genitori o parenti, soltanto dopo la loro morte. Era una precauzione che gli anziani prendevano, perché non essendoci allora le pensioni, se, ancora vivi, avessero fatto spartire, cioè concesso ai loro figli o altri eredi di dividersi la “loro robba”, sarebbe accaduto che loro per poter “andare avanti”, sarebbero stati totalmente dipendenti dai figli. La qual cosa, per esperienze non andate a buon fine, fatte in precedenza da altri, consigliava ai “polli” ancora in possesso di tutte le loro “penne”, di tenersele fino al termine dei loro giorni.

 

 

N.  17  Amore e fume, nu vedo più lume

Amore e fumo, sono le cose che mi fanno perdere il lume degli occhi.

 

Due cose che da sempre, per antonomasia, hanno offuscato la vista fino a non far distinguere più i contorni di ciò che ci circondava, sono state l’amore e il fumo. E’ chiaro che sono due casi estremi. Quando una persona è innamorata follemente, quasi non si cura più di ciò che le sta intorno e di ciò che accade vicino alla sua persona. Ma mentre questo fenomeno è soltanto un offuscamento della mente, il secondo, il fumo, agisce sul fisico e principalmente sul respiro e sulla vista , tanto da non far più, anche materialmente, vedere ciò che sta intorno, tanto da far perdere il lume,degli occhi.

 

 

N.  18  De ‘na vacca  ‘emo salvato un corno

Di una mucca, a causa di una disgrazia, siamo riusciti a salvare soltanto un corno”

 

Dalla disgrazia in cui è incorso il declamatore del detto, veniamo a sapere che il proprietario di una vacca vittima di un infortunio che l’ha portata alla morte, egli  è riuscito a salvare soltanto un corno. Noi, per similitudine, a questo detto potremmo accostare chi di una sua grande proprietà o ingente capitale, a causa di un crac o tracollo finanziario, è riuscito alla fine, a mantenere la disponibilità di una infinitesima parte, come il corno lo è rispetto alla mole di una vacca.

 

 

N.  19  E che te credei, de trovà sempre tre castagne pe’ riccio eh?!

E cosa credevi, di trovare sempre tre castagne per ogni riccio?!

 

In ogni riccio del castagno, quando in primavera il frutto è ancora in germe, ci sono tutti i presupposti di cui la natura l’ha dotato, affinché da ognuno di essi si sviluppino tre castagne.

Ma non sempre, per vari motivi ciò avviene al termine del ciclo vitale. A causa del clima più o meno clemente, dell’impollinazione, della salute della pianta, dei danni causati dai parassiti, possono giungere al pieno e completo sviluppo una, due o tre castagne, ed a volte anche nessuna.

Il detto è rivolto evidentemente ad una persona che imbarcatasi in un’impresa dalla quale sperava di ricavare abbondanti soddisfazioni o forse ricchezze, si trova, alla fine, con un utile o vantaggio di gran lunga inferiore al previsto che era stato preventivato.

 

 

N.  20  Me pare che voiaddri tirete a squarto comme i boi

Mi sembra che voi tiriate l’aratro in modo che lavori al contrario di come dovrebbe.

 

E’ un proverbio che attinge al linguaggio proprio della cultura contadina dei nostri antenati. “Tirare a squarto” è l’azione di una coppia di buoi che, aggiogati all’aratro o ad un carro, durante l’aratura o il trasporto di un pesante carico, invece di tirare contemporaneamente ed in sincronia in linea retta l’aratro o il carro ai quali sono aggiogati, tirano “a squarto” cioè obliquamente o di traverso, uno da una parte e uno dall’altra. Il risultato è che l’aratura o il trasporto riescono mal fatti e non a regola d’arte. Il detto, è rivolto  a due o più persone che stanno eseguendo un lavoro, che per essere portato a termine in maniera valida e soddisfacente, ha bisogno della piena e corretta partecipazione di ciascun componente del gruppo. Se ciò non avviene perché qualcuno o più d’uno “tirano a squarto”, cioè quasi “remano contro”, le cose non vanno per il meglio.

 

 

N  21  Te conoscio da i’ brodo che si’ pecara!

Ti riconosco dal sapore e dall’odore del brodo che hai dato, che sei carne di pecora.

 

Questa affermazione è di qualcuno che valutando il pessimo modo di agire in un lavoro, di una persona su cui contava, esprime il suo giudizio negativo. Proprio come recita il detto, nel quale chi lo declama si accorge che il brodo che sta assaggiando è di pecora, la cui carne, secondo lui, non gli dà il gusto gradevole che egli si aspettava.

 

 

N.  22  Mo nun è più i’ ttempo che l’ommini tiréno su i ccazzoni co’ ‘a girella!

Ora non è più il tempo in cui gli uomini si tiravano su i pantaloni con la girella (la carrucola).

 

E’ certo un po’ buffo e simbolo di estrema goffaggine il semplice gesto di tirarsi su i pantaloni, fatto addirittura con una specie di carrucola, compiuto con questo congegno, da parte degli uomini del tempo che fu. Certamente da quegli anni, di tempo ne è passato e molto; gli uomini ora non compiono più azioni tanto maldestre.

 

 

N.  23  ‘Emo fatto comme i’ cirasaro : culo rotto e carcerato

Abbiamo ottenuto lo stesso risultato del ladro che è andato a rubare le ciliegie. Dopo che il proprietario lo ha colto in flagrante, egli è saltato dall’albero facendosi molto male, per cui è stato anche catturato e tradotto in carcere. In altre parole, il declamatore del detto, a causa di una sua azione che non è andata a buon fine, oltre al danno ha dovuto subire anche la beffa.

 

 

N.  24  Decchì c’è chi ‘mmontone e chi smontone!

Qui c’è chi lavora ed accumula ricchezza e risorse e chi disperde e sperpera ciò che altri hanno, con lavoro e fatica, prodotto.

 

Questa era una espressione facile a sentirsi declamare, ma non del tutto scomparsa, da qualche padre di famiglia o di qualcuno a capo di un gruppo di lavoro, in cui essendoci molti componenti, rispettivamente figli o operai, non tutti svolgevano con diligenza, correttezza e comunione di intenti, la loro parte. Risultato: il comportamento costruttivo dei primi, viene vanificato dalla negligenza e poca collaborazione degli altri.

 

 

N.  25  La fa’ lunga comme Francesco i’ bottaro

Per dirmi o riferirmi qualcosa, non finisci mai, proprio come faceva Francesco il bottaro.

 

Il Francesco i’ bottaro di cui si parla, non so se è la stessa persona che io ho conosciuto come Checco i’ cerchiaro, ma penso di sì, perché avere a che fare con le botti o con i cerchi (delle botti), siamo lì. L’ho conosciuto, ma non molto da vicino. Ricordo che ci si parlava bene ed era molto colorito nei suoi interventi. Non mi sembra però che fosse molto prolisso nel parlare. Ma chi ha coniato il detto, evidentemente lo ha conosciuto più da vicino di me.

 

 

N.  26  Da quello glié scortiche i’ ccodarone !

A quella persona dà fastidio il codarone

 

E’ d’obbligo spiegare cosa è il codarone, parola dialettale che deriva dall’italiano codone. Riandiamo col pensiero ad “anni fa” (un bel po’), quando da noi, tutti i lavori, ma soprattutto quelli agricoli che ora svolgono le macchine e i trattori, erano compiuti dagli asini. A queste bestie, prima di partire per la campagna, gli si metteva in groppa il “basto”, una specie di grossa sella che veniva fissata sulla schiena da una grossa cinghia che passava sotto e intorno alla pancia della bestia ed era fissata al basto da una parte, e agganciata sempre a questo dall’altra parte, con una fibbia. Il codarone invece, era fissato alla parte posteriore del basto e consisteva in una larga stringa di cuoio che rivestiva un robusto anello abbastanza largo di corda. Questo anello veniva passato intorno all’attaccatura della coda dell’asino, per impedire che il basto e tutto il carico che stava legato sopra, nelle discese in forte pendenza, scivolasse fin sul collo della bestia e cadesse a terra. Naturalmente l’attrito e la pressione esercitate da questo cordone intorno all’attaccatura della coda, soprattutto nelle discese, dava molto fastidio agli asini e spesso procurava delle abrasioni, anche sanguinanti, della pelle, effetto certamente non gradito dalle bestie. Perciò, dire che ad una persona dà fastidio il codarone non è poca cosa. Fortunatamente però, riguardo ad una persona, il codarone è solo figurato, cioè fatto di parole, comportamenti o gesti di qualcuno nei confronti della persona che ne è l’obiettivo e che, naturalmente, se ne infastidisce.

 

 

N.  27  Po’ fa’ sangue ‘na rapa eh?

Si può cavare sangue da una rapa? Certamente no.

 

Si può ottenere qualcosa da persone, animali o cose che per loro stessa natura ne sono del tutto sprovviste? Mai. Proprio come non potremo mai ottenere sangue da una rapa che ne è del tutto priva.

 

 

N.  28  Ma che va’ cercanno Maria pe’ Roma e ?!

Ma scherzi o vai cercando veramente Maria per le strade di Roma? E quando la trovi!!

 

Si racconta che “in illo tempore “, cioè tanti anni fa, quando le persone vivevano dalla nascita alla morte sempre entro il perimetro del loro paesello natale, o come si diceva allora “non uscivano mai dall’uovo”, un nostro compaesano che aveva una zia a Roma, pensò di andarle a fare una visita. L’idea gli venne quando entrò in funzione la linea ferroviaria della Roma Nord.

Una mattina partì con il primo treno, quello delle cinque, per Roma e vi giunse di primo mattino. Pensando che anche in città, come a Vignanello, tutti conoscessero tutti, appena uscito dalla stazione, chiese al primo che incontrò: “Dimme un po’, du’ sta de casa a zsi’ Maria mia?” L’interpellato meravigliato lo squadrò dall’alto in basso e gli rispose: “Ma chi Maria cerchi? Vai”. Il nostro rimase  meravigliato e molto, che non la conoscesse. Continuò a porre la stessa domanda a tanti altri, ottenendo invariabilmente la stessa risposta. Verso mezzogiorno, stanco ed avvilito, prese il treno e tornò a casa. Per tutto il viaggio rimase triste ed amareggiato per non aver potuto riabbracciare la zia Maria, che, suo malgrado, forse è stata lei a dare origine al nostro detto.

 

 

N.  29  La fa’ lunga comme ‘a camicia de Mèo

Per dire o raccontare qualche fatto, la fai lunga come la camicia di Mèo

 

Non ho avuto mai il piacere di aver conosciuto questo illustre Signor Mèo! Probabilmente è un altro “Francesco i’ bottaro”, quello del detto N. 25, che, anche lui era un po’ prolisso. Avrei però avuto piacere di conoscere Mèo, se non altro per misurare la lunghezza della sua camicia.

 

 

N.  30  Io so’ vecchjo , e nun ho ppianato su mai ‘e scale ‘e i’ Ccommune!

Io sono vecchio e non ho mai salito le scale del Palazzo Comunale!

 

Per prima cosa c’è da spiegare l’azione del verbo ppianare su oltre al significato che aveva il detto al tempo dei nostri nonni, o forse, meglio dei bisnonni.

In Vignanellese, ppianare su è, come dire, voce del verbo: salire le scale, voce questa, del tutto assente nel nostro vocabolario italiano. Poter pronunciare questa frase a voce alta e senza tema di smentita da parte di nessuno, per i nostri avi era in titolo di merito, di onestà e di integrità morale, poiché allora, nel Palazzo Comunale veniva anche amministrata la giustizia, per cui davanti al Sindaco o al Podestà o a qualche altra autorità, veniva portato, ppianéa su, soltanto chi aveva commesso qualcosa di illecito. Quindi era un grosso vanto, ed una certa veneranda età, non essere mai ppianati su.

 

 

N.  31  Sarà che Romolo fa ‘a cappanna !

Sarà che Romolo riuscirà a costruire la sua capanna!

 

E’ un altro dei detti che ha per soggetto un nostro compaesano che, manco a dirlo, era un contadino, questa volta identificato come un certo Romolo. Da quanto ho sentito dire, tramandato dagli anziani, il nostro, era una persona molto ma molto semplice, non sposato che abitava da solo e che trascorreva quasi tutto il suo tempo, giornate festive comprese, in campagna, in tutte le stagioni, a fare qualche lavoretto.

Tutti i contadini di allora avevano in ogni loro appezzamento di terreno, una capanna abbastanza robusta, capiente e, soprattutto, impermeabile per ripararsi dalle intemperie. Soltanto Romolo non se l’era mai costruita e quando erano brutte giornate, andava a ripararsi in qualcuna dei suoi confinanti.

Un anno, appena finito l’inverno, decise di costruirsi anche lui la sua cappanna, nel suo pezzo di terra e con gioia informava tutti quelli che incontrava, della sua decisione. Cominciò già da marzo a preparare pali, paletti, giunchi per legare, fasci di erica e di altri arbusti. Dopo la mietitura del grano, si procurò mucchi e bracciate di stoppie, materiale di prima necessità per costruire una buona capanna o, come diceva lui, cappanna, che con due doppie, di certo, sarebbe stata doppiamente robusta ed impermeabile. E così via, ora con una cosa ora con un’altra, continuando ad informare sempre tutti, tanto da essere diventato lo zimbello di tutta la contrada, cosicché ad ogni sua informazione sul procedere dei lavori, ognuno, più o meno sommessamente, diceva: “Sarà che Romolo fa ‘a cappanna!”

Infatti sopraggiunse l’inverno e la capanna di Romolo non era ancora finita, anzi, non stava nemmeno a buon punto. Il detto è pervenuto fino a noi e viene pronunciato, sempre quasi sottovoce, diretto a persone che dicono ripetutamente di voler fare, costruire o procurarsi qualcosa, senza mai portare a termine ciò che si sono prefissi da tanto tempo.

 

 

N.  32  So zsuppo colente comme un pucino

Sono bagnato, grondante di acqua, come un pulcino.

 

Dopo aver camminato o essere stati a lungo sotto la pioggia senza alcuna protezione si è sempre tutti bagnati su tutto il corpo. Allora spesso ci si paragona ad un pulcino appena uscito dal guscio dell’uovo, entro il quale si è formato, ed è bagnato in ogni parte del suo corpicino ancora implume ed appiccicoso.

 

 

N.  33  San Pietro, che era San Pietro, prima ‘e tutti  fece ‘a barba sua!

San  Pietro, che era il primo seguace di Gesù Cristo e che avrebbe dovuto essere altruista, prima di tutte fece la barba sua e non quella degli apostoli.

 

Il detto che scomoda addirittura il capo degli apostoli, vuol dire a chi a volte eccede nel suo altruismo fino all’esagerazione, che anche San Pietro, per quanto buono, cristiano e altruista, per prima cosa pensava a quelle di casa sua (la barba ne è il simbolo), e poi a quelle degli altri.

 

 

N.  34  Du tte rivordi ce trovi i’ ppadrone!

Da qualsiasi parte ti rivolgi, ci trovi sempre chi comanda più di te e ti vuole sopraffare.

 

E’ l’espressione tipica di una persona molto mite, spesso delusa dalla vita, troppo fatalista e il più delle volte incapace di reagire ai soprusi e di far valere le sue ragioni. Tanto, dice, ovunque mi giro intorno, trovo sempre un prepotente che la fa da padrone.

 

 

N,  35  Se ‘a mmidia fusse ‘a febbre, tutto i’ mmonno l’averebbe

Se l’invidia fosse la febbre, tutto il mondo ce l’avrebbe.

 

Questo proverbio l’ho sentito citare più volte da mia nonna Buzzi Maria (1878-1961) che presumibilmente lo aveva appreso da persone più grandi di lei. Pertanto siamo certi che è frutto di esperienze vissute. Non credo abbia bisogno di grandi esemplificazioni. L’invidia è uno dei sette vizi capitali che la religione cristiana condanna come peccati. E’ purtroppo molto diffusa tra le persone di qualsiasi categoria e rango sociale.

 

 

N.  36  Quello e ‘na ròta che crecchje

Quella persona è come una ruota che cigola. Da noi si dice anche:“Non è tanto per la quale”

 

Essere paragonati ad una ruota che cigola, non è il massimo degli apprezzamenti, anzi è proprio una valutazione negativa. E’ qualcuno che con i suoi modi di comportarsi non è troppo raccomandabile o non agisce secondo i canoni di civiltà e rettitudine nei rapporti umani con i suoi simili.

 

 

N.  37  Quanno sone Avemmaria ‘a ccasa ‘e l’addri se va via!

Quando suona la campana dell’Ave Maria, dalle case degli altri si va via! Almeno si dovrebbe, così si diceva una volta.

 

Anche questo, come quasi tutti, è un detto molto antico e ci tramanda una regola di vita dei nostri antenati. Se si trovavano in casa di estranei, quando giungeva dal campanile il suono della campana dell’Ave Maria, che segnava la fine del giorno (all’imbrunire), ognuno doveva rientrare in casa propria e lasciare quella degli altri. Al sopraggiungere del buio, le porte e le finestre di tutte le case, in special modo quelle dei primi piani che davano sulle strade, venivano chiuse e sprangate dall’interno co’ i’ ppaletto e poco dopo si cenava e si andava tutti a letto.

Dicevano, sempre i vecchi, che quando ancora non c’era l’illuminazione pubblica nelle strade, chi girava di notte, spesso era un poco di buono.

 

 

N.  38  Eh, figlio mio, tu si’ erba, ma il so’ stoppolo

Eh, figliolo mio, tu sei ancora giovane (sei erba), mentre io sono vecchio ed ho una lunga esperienza di vita!

 

E’ un’espressione D.O.C. per noi Vignanellesi. Fu la risposta che un certo ‘Nocenzo, anziano, diede ad un certo Giggi, molto più giovane di lui, entrambi morti da anni, quando questo gli chiese dei chiarimenti riguardo a come erano stati impiegati e spariti certi denari pubblici, amministrati da detto ‘Nocenzo. La suddetta risposta, il detto, voleva dire: Tu sei ancora troppo giovane come le pianticelle di grano appena nate, e tante esperienze ancora non le hai avute, mentre io che sono vecchio, sono come il grano maturo, anzi le sue stoppie (lo stoppolo), che hanno superato tutte le stagioni e restano sul terreno dopo la mietitura. Io so come vanno le cose del mondo, quindi… non fare tante domande!

 

 

N.  39  Ce passo rente rente comme Colombo

Ci passo (o ci vado) rasente rasente , proprio come Colombo.

 

Non credo di violare la privacy della famiglia, dicendo che il Colombo del detto è un nostro compaesano vissuto entro il secolo scorso.

E’ stato uno dei pionieri vignanellesi della “patente di guida” e conduttore di veicoli, proprio come mestiere. Era solito dire, quando raccontava dei suoi innumerevoli viaggi, che spesso gli capitava di passare vicino ad un ostacolo, ad un’altra auto, o tra due “qualcosa” che gli ingombravano il passaggio , sempre  rente  rente, cioè rasente rasente, vicino vicino, che di più non si poteva.

Da qui il detto “è passato alla nostra storia”, per indicare, anche in senso figurato, persino chi compie qualche azione che rasenta la legge o altro ingombro di vario genere.

 

 

N.  40  Si nu sti bbono, chiamo i’ Ccapocollocchj

Se non stai buono, chiamo il Capocollocchj.

 

Il Capocollocchj era uno spauracchio, una specie di uomo-mostro che noi bambini immaginavamo con una enorme testone in cui erano ben visibili due occhioni grandi grandi.

Molti anni fa le nostre mamme minacciavano di chiamarlo per farci portar via da casa, quando stavamo cattivi o quando disobbedivamo loro. Da quanto mi risulta mi sembra che di simili spauracchi non vengono più invocati dalle giovani mamme di adesso. Forse perché già bastano ed avanzano quelli che i loro bambini vedono in TV.

 

 

N.  41  Si’ chiara comme l’acqua ‘i gnocchi

Sei chiara come l’acqua di cottura degli gnocchi. (Credo!)

 

Sinceramente non mi sono mai trovato sul posto quando una persona ha declamato questo detto, riferendosi o affibbiandolo a qualcuno, suppongo però , in senso dispregiativo. Pertanto non sono in grado di elaborare alcuna esemplificazione.

 

 

N.  42  Chi la ‘ntorvida se la beve

Chi la intorbida, se la deve pure bere.

 

Nel detto, mi sembra che il verbo intorbidare sia usato nel senso di “provocare qualche danno”. Pertanto ritengo che possa essere interpretato come: “Chi rompe paga e i cocci sono i suoi”.

 

 

N.  43  Tranquillo, è morto ‘nculato

Tranquillo (credo), non ha fatto una bella fine.

 

Non conosco tutti i detti e i proverbi del nostro paese, ma parecchi sì. Di questo, oltre a non conoscerlo, non mi viene in mente alcuna eventualità in cui possa calzare.

 

 

N.  44  Decchì semo sempre uno pe’ entrà e quattro pe’ scappà!

Qui siamo sempre uno che entra e quattro che se ne vanno!

 

Questo detto, in verità un po’ sconsolato, l’ho sentito declamare, quasi con rabbia, da alcuni genitori che avevano una figliolanza abbastanza numerosa. Specialmente nei lavori di campagna, ma anche in cantina ed in casa, era il capo famiglia che sovrintendeva a tutti i lavori, assegnando a ciascun componente il suo compito.

In corso d’opera, quando vedeva che qualcuno o più di uno, non svolgevano diligentemente il compito loro assegnato o addirittura si assentavano, anche con altre parole, diceva rammaricandosene: “Qui mi pare che per ognuno che lavora o entra a lavorare, quattro o non fanno nulla, o addirittura se ne vanno via.

 

 

N.  45  Nun ce lamentemo adesso, chè i’ ppeggio vene sempre doppo

Non ci lamentiamo adesso, perché il peggio viene sempre dopo

 

Credo che sia uno dei detti più conosciuti ed alla portata di tutti, anche senza tante spiegazioni. In tutte le manifestazioni giornaliere, spesso a volte anche a sproposito, quando vediamo che qualcosa non va, quasi a consolarci , ripetiamo un po’ tutti o diciamo dentro di noi che il peggio deve ancora venire. Qualche volta che ciò non accade, dovremmo però apertamente mostrare la nostra gioia.

 

 

N.  46  Quello ci ha ll’occhj comme San Centignano

Quella persona ha gli occhi grandi e spauriti o paurosi, come San Centignano

 

Mi è stato detto , ma io non l’ho mai visto personalmente, che all’interno della Commenda di Centignano c’è un dipinto raffigurante un uomo con due occhi talmente grandi che a guardarli  incutono paura. Qualcuno, credo senza cognizione di causa, pare che abbia detto che il dipinto rappresenti San Centignano. Noi Vignanellesi però non abbiamo sentito mai parlare di questo santo del quale peraltro non si fa alcuna menzione nell’agiografia dei santi.

 

 

N.  47  Me pari ‘na puttima!

Mi sembri una puttima (un’upupa)

 

La puttima è il nome dialettale col quale a Vignanello e, da quanto ne so, soltanto noi, chiamiamo il bellissimo ed elegante uccello che è l’upupa. Ha un bel piumaggio dai colori vivi ma non eccessivamente sgargianti che vanno dal grigio al bianco al rosso mattone. Mentre vola le sue ali mostrano delle penne bianche e nere che disegnano archi variopinti nell’aria. La caratteristica che però la distingue da tutti gli altri uccelli è una cresta di penne erettili soltanto mentre vola e quando, posata in terra, è in apprensione per qualche pericolo imminente, che le danno un aspetto molto simpatico e spiritoso.

Quindi la persona a cui è riferito il detto, porta i capelli pettinati dritti sulla testa, forse trattati con gel o lacca, a formare una cresta somigliante a quella di un gallo o di un airone.

 

 

N.  48  Puzzi più tu che un cane suppo

Tu emani più cattivo odore di un cane bagnato

 

Pur avendo sentito dire talvolta questa espressione, non mi è mai capitato però di trovarmi a contatto con un cane bagnato, per conoscere ed annusare l’odore che emana. E’ chiaro che chi ha coniato il detto lo conosce avendolo annusato; tuttavia appiopparlo ad una persona, mi sembra un po’ esagerato e di cattivo gusto.

 

 

N.  49  Da ognuno gliè fa coce ‘a bua sua

A ciascuno fa male la sua malattia, grande o piccola che sia.

 

Con la parolina bua, almeno da noi, si è soliti indicare i piccoli graffietti o qualche piccolo doloretto dei quali i bambini piccoli, di non più di due o tre anni, vogliono essere compatiti.

Nel detto sta a significare oltre a qualche malattia di persona adulta, anche qualche preoccupazione o problema più o meno serio che qualcuno possa avere. E ciascuna di queste evenienze sono vissute e sentite in maniera diversa da ogni persona che ce l’ha, indipendentemente dalla sua gravità.

 

 

N.  50  Quello è ‘iotto comme ‘a mice

Quella persona è ghiotta come una gatta

 

Spesso quando si vuol commentare una dote, ma più spesso un difetto di una persona, si ricorre a qualche termine di paragone che, di volta in volta può essere un oggetto o un animale che ne è il simbolo. Nel nostro caso una persona che è ritenuta ghiotta, viene paragonata ad una gatta che è unanimemente considerata tale.

 

 

N.  51  ‘A chiacchiera è mezzo pane

Saper parlare bene e possedere una “parlantina” sciolta, è come possedere una buona fetta di ricchezza.

 

Era questo un detto già molto in voga, quando fino ai primi del secolo scorso, ancora tanti erano gli analfabeti e pochissimi quelli che, diciamolo con il nostro dialetto, sapéno mette’ ‘na parola dietro a ‘n’antra, per cui a volte non riuscivano, in una qualsiasi occasione, ad esprimersi correntemente e correttamente, per far valere le proprie giuste ragioni. Quindi le persone che sapevano ben parlare erano tenute più in considerazione rispetto alle altre.

 

 

N.  52  L’urdima nun ce vorebbe mai

L’ultima cosa che accade non ci vorrebbe mai

 

Penso sia capitato a tutti di trovarsi a volte nella situazione in cui sembra di poter stare per un po’a rilassarsi perché il “da fare” è stato fatto tutto. All’improvviso però o viene in mente qualcosa ancora da fare, o capita un imprevisto che ci costringe a tornare subito in azione. Allora ci cadono le braccia ed esclamiamo: “Ci mancava anche questa!!” oppure “ Questa è l’ultima, proprio non ci voleva!!”.

 

 

N.  53  Tanto decchì c’e chi disegne e chi squadre!

Tanto qui c’è chi decide per noi!

 

Questo detto, penso che sia un po’ una variante del:“L’uomo propone e Dio dispone”. Spesso le nostre soluzioni pensate per risolvere qualche problema, sono vanificate poiché interviene il caso, che qualcuno chiama destino, il quale proprio come un ingegnere, progetta, squadra e disegna per noi.

 

 

N.  54  Più giri i’ mmonno e più Marchiciani trovi

Più giri e conosci il mondo, più ti capita di trovare persone particolari e delle più svariate tipologie

 

Quando, nell’Ottocento, ancora esisteva lo Stato Pontificio, di cui il Lazio faceva parte anche insieme alle Marche, nella nostra regione c’è stata sempre una continua migrazione di Marchigiani, attratti dalla capitale dello Stato: Roma. Questi migranti di tutte le estrazioni, da noi non erano tanto ben visti, per cui Marchiciani aveva un significato un po’ dispregiativo, come nel detto che stiamo commentando. Però il massimo del disprezzo, l’appellativo lo raggiunge in un altro detto, anch’esso molto noto: Meglio un morto in casa, che un Marchiciano alla porta.

 

 

N.  55  Da ‘a montagna ce piove e ce fiocche, Dio li fa e po’ li ‘ccoppie

Come è normale che sulla montagna ci piova e ci nevichi, così è nomale che Dio le persone le faccia e poi le accoppi.

 

Di solito questo modo di dire si sussurra o si pensa, se si sta da soli, quando ci si vede passare davanti una coppia o un paio di persone male assortite, o moglie e marito, o due amici, o due soci in qualche impresa. Sicuramente per il creatore del detto, i due che gli passano davanti, chi per un verso, chi per un altro, proprio non dovrebbero stare insieme perché è troppo appariscente il contrasto che c’è tra loro.

 

 

N.  56  ‘Sta vorda, mettemo ‘a chiave sotto ‘a porta!

Questa volta, chiudiamo bottega e mettiamo la chiave sotto la porta.

 

Mettere la chiave sotto la porta, da noi significa: smettere di svolgere o chiudere l’attività che stavamo esercitando, perché o stiamo per avere o lo abbiamo già avuto, un fallimento morale o materiale. Il detto si pronuncia sempre un po’ sconsolati, quasi rassegnati ed impotenti, di fronte ad una realtà o eventualità che ci sta portando ad una non ottimale conclusione dell’attività che stavamo esercitando.

 

 

N.  57  Da quello, pe’ quanti quatrini ci ha, glie se sponne ‘a banca

A quella persona, per quanti soldi ha, gli si sfonda la banca.

 

La persona che sta passando davanti a chi parla, o è notoriamente ricca o chi lo qualifica tale, lo sa con certezza, per cui il peso di tutti i soldi che ha rischia di sfondare il pavimento della banca nella quale li tiene depositati.

 

 

N.  58  Che pòzza magnatte i’ pporco vicino all’acqua, così magne, beve, e nun se strozze”

Che possa mangiarti il maiale vicino all’acqua, così mangia, beve e non si strozza

 

[Questo Lillo l’ha saltato. Non so bene perché, comunque mi permetto di commentarlo in breve. Effettivamente c’è poco da commentare, si tratta semplicemente di un augurio non proprio positivo, simile ad altri che ho sentito, tipo “Te pozza ‘bbraccicà su i’ pporco…” dove il coinvolgimento del ben noto suino, in un modo o nell’altro, non promette niente di piacevole per il destinatario del detto. N.d.r.]

 

 

N.  59  Chiacchieremo, chiacchieremo, po’ i’ resto lo cantono l’orghini!

Parliamo, parliamo! Che poi il resto delle tante faccende che abbiamo da sbrigare ce le cantano gli organi della chiesa!

 

Parliamo, parliamo e perdiamo altro tempo, con tutto ciò che abbiamo da fare, come se ogni nostra faccenda si risolvesse con gli organi della chiesa quando suonano! Cioè mai!

 

 

N.  60  Chi nun ce mette l’ago, ce mette i’ ccapo!

Chi non ci mette l’ago per tempo, cioè non rammenda subito un piccolo taglio o un piccolo foro in un indumento, ci potrà mettere dentro, tra un po’ di tempo, tutta la testa

 

Un piccolo foro, col tempo diventa grande. Questo detto per assimilazione, può anche essere esteso al momento in cui ad una persona capita un inconveniente di lieve entità, che se preso in tempo può essere forse risolto. Se invece per dimenticanza o pigrizia non ci si mettono subito le mani, il piccolo inconveniente può crescere a dismisura e divenire irreparabile.

 

 

N.  61  Quanno i’ vecchio ha fatto ‘a gobba, quello che ha fatto nun se ricorda!

Quando una persona è diventata anziana, ciò che ha combinato da giovane non se lo ricorda

 

Il detto è diretto a persone anziane che spesso “pontificano” e criticano i giovani per le loro stramberie, comportamenti e manchevolezze che manifestano per l’inesperienza e per la loro foga giovanile. Molto spesso chi sente parlare un anziano, gli dedica il nostro detto, perché sa “quante” ne ha combinate da giovane, quel vecchio; però, ora che è “grande”, non lo ricorda più o finge. Allora dà degli anni della sua gioventù una immagine “da prendere ad esempio”.

 

 

N.  62  Si nun cachi cacherai, si nun pisci morirai

 Se non elimini le feci, prima o poi ci riuscirai, ma se non urini, preoccupati, la cosa può essere grave

 

Anche se per qualche giorno può capitarti di non evacuare regolarmente le tue feci, prima o poi, anche con l’aiuto di qualche medicinale, ci riuscirai, senza danni. Se però non urinerai regolarmente nella giornata, o ci riuscirai a fatica, preoccupati, la cosa può diventare grave

 

 

N  63  Ogni ora nasce un fongo

In poco tempo, in ogni ora, ma pure in un attimo, nasce un fungo

 

Il detto è rivolto a chi ha qualche preoccupazione abbastanza grossa e si dispera perché non vede una via d’uscita. Il consiglio da dargli è: Abbi fiducia e pazienza, perché, come rapidamente quando meno te l’aspetti, può spuntare all’improvviso dal terreno un fungo che poco fa non c’era, così nella vita possono talvolta avvenire e presentarsi soluzioni ai nostri problemi, che in poco tempo tutto cambiano in meglio.

 

 

n.  64  ‘E fune e i funari ce vonno de Foligno

Le funi e i loro fabbricanti, debbono essere di Foligno

 

I nostri antenati contadini, nei loro lavori quotidiani, spesso avevano a che fare con funi e corde che continuamente adoperavano. Pertanto se ne intendevano. Evidentemente per loro le migliori funi erano quelle fabbricate dagli artigiani di Foligno. E ce lo hanno tramandato, anche se noi oggi le usiamo molto poco.

 

 

N.  65  Chi ‘ mmazze i’ ccompagno va a casa solo

Chi uccide il proprio compagno, torna a casa da solo.

 

Nei tempi lontani, quando si dovevano intraprendere lunghi viaggi e ci si spostava unicamente a piedi, per essere più tranquilli i viandanti, di solito si accompagnavano con qualcun altro che li affiancava e poteva essergli, alla bisogna, di aiuto. Non era raro nel corso del cammino, imbattersi in ladri o malintenzionati. Quindi il compagno di viaggio era, a volte, la salvezza. Perciò abbandonare o eliminare il compagno voleva dire proseguire il viaggio da soli, con tutti i rischi che si potevano correre.

 

 

N.  66  Quello è lento comme ‘a pianta ‘e i ccacchi

Quella persona è lenta come la pianta dei cachi

 

[Anche qui Lillo ha sorvolato. Mi permetto di nuovo di dire due parole. I cachi hanno la peculiarità di maturare più tardi rispetto ad altri frutti, pertanto la pianta è ritenuta “lenta” e viene utilizzata come elemento di paragone in questo detto per indicare qualcuno che non eccelle in velocità nelle sue azioni. N.d.r.]

 

 

N  67  I’ mmedico pietoso fa ‘a piaga puzzolente

Il medico che ha paura di far sentire dolore per il suo intervento al suo malato, fa infettare e rendere fetida la ferita

 

Il medico che non interviene ,per pietà, con la dovuta tempestività ed energia quando c’è una ferita o una malattia, peggiora a volte in maniera irreparabile, lo stato di salute del suo paziente

 

 

N.  68  Si sapeo comm’era lo mète, quann’ero ciuco, m’ero fatto frate!

Se avessi saputo come sarebbe stata faticosa la mietitura, quand’ero piccolo mi sarei fatto frate

 

E’ la riflessione di un contadino che ormai grande, sta sperimentando quanto è faticosa la mietitura e, per estensione, ogni lavoro agricolo. Se da bambino lo avesse saputo, allora si sarebbe chiuso in un convento per diventare frate, che sicuramente è meno faticoso, almeno materialmente, che lavorare nei campi, esposto a tutte le intemperie.

 

 

N.  69  Certo, che si ‘a morte nun ciha prescia, tu manco per cavolo!

Certo, come la morte non ha fretta, tu sei proprio come lei: non ti preoccupi di eseguire con celerità i tuoi lavori.

 

L’espressione un po’ ardita paragona una persona che dedica poco impegno e solerzia nel suo lavoro, alla morte, quasi personificata, che non ha mai fretta di arrivare, tanto per lei, presto o tardi cambia poco.

 

 

N.  70  Quello va a Roma a lavorà e preghe Iddio de nun trovà!

Quello va a Roma a cercare lavoro, ma prega Iddio di non farglielo trovare.

 

E’ una considerazione, questa, riferita al nostro ormai classico “Quello…”, che è oggetto delle attenzioni di chi lo osserva e ne parla, anzi, ne sparla. Lo considera un poco di buono, uno scansafatiche che ha molto in odio il lavoro, ma tuttavia non vuole darlo a vedere, tanto che va a cercarlo anche molto lontano dal paese. Giunge addirittura a Roma ma, intimamente, ne è talmente poco incline, da pregare il Signore di non farglielo trovare.

 

 

N.  71  Chi da i’ ppaese va d’i’ ppaesello, o è matto o senza cervello

Chi sta in un paese e va ad abitare in un altro più piccolo, o è matto o è senza cervello (capacità di giudizio).

 

Per i nostri antenati, chi abbandonava il suo paese di residenza per andare ad abitare in un centro più piccolo, era sinonimo più che altro, di peggioramento del tenore di vita, per cui era ritenuta una persona non troppo intelligente e poco saggia.

 

 

N.  72  I zsòrdi dell’avaro se li gode i’ sciampagnone

I denari risparmiati da un avaro, di solito se li sperpera uno spendaccione

 

Il proverbio vuol significare che spesso qualche persona piuttosto avara, vive di stenti per risparmiare e per accumulare ricchezze. Altrettanto spesso accade che qualcuno dei suoi eredi in poco tempo, con una vita dispendiosa e dei comportamenti sconsiderati, sperperi quanto il suo antenato ha con fatica e tanti sacrifici accumulato.

 

 

N.  73  Spogliémo un ardàre pe’ vestillo un andro

Spogliamo un altare per rivestirne un altro

 

Compiere l’azione citata nel detto è cosa che non porta alcun vantaggio. Sarebbe come chiedere un prestito di denaro ad un amico o ad una banca, per pagare un debito che abbiamo con un’altra persona. Resteremmo come prima con lo stesso debito da pagare. Altro caso: proteggersi dal freddo con una coperta piccola e corta. La sposteremmo in continuazione per coprirci, ora da una parte ora dall’altra del nostro corpo, senza diminuire affatto la sensazione di freddo della nostra persona.

 

 

N.  74  Da quello ce piglieremo ‘i ‘nnesti

Da quella persona ci prenderemo gli innesti

 

Gli innesti vengono praticati alle piante selvatiche per migliorarne la qualità del frutto. Innestare una pianta significa trasferire su un suo rametto, un pezzetto di ramo di una pianta di diversa qualità, ovviamente migliore. Però riguardo alla persona del nostro detto, l’innesto che si praticherebbe, prelevando un ramoscello da essa, è, evidentemente chiaro, che la cosa è detta in senso ironico, per cui l’operazione  è proprio da non fare, poiché peggiorerebbe la situazione.

 

 

N.  75  Ce vo’ un sòrdo pe’ fallo comincià e cento pe’ fallo smette

Occorre un soldo per farlo cominciare, a dire o a fare qualcosa, e cento per farlo smettere

 

Nel detto si fa riferimento a qualcuno che per cominciare un lavoro o per parlare di un argomento, si fa tanto pregare che, quasi, bisogna pagarlo. Poi, una volta che ha cominciato, si accalora, entra nella parte e si sente talmente soddisfatto di quanto sta facendo o dicendo, che fanno fatica per farlo smettere.

 

 

N. 76  Tìrono tutti a quatrini comme ‘e cecche

Quelli di cui il declamatore del detto sta parlando, sono tutti avidi ed attratti dal denaro, proprio come ‘e cecche (le gazze ladre) vengono attratte da oggetti che luccicano.

 

E’ un’amara constatazione dei nostri antenati, ma ancor attuale al giorno d’oggi. Spesso le persone oneste e rispettose degli altri, vedono che chi occupa un posto di comando o svolge una attività in cui si ha a che fare con il denaro o in qualche modo questo c’entri, tali individui, se c’è una benché minima possibilità di accaparrarselo, pure a danno degli altri, la sfruttano o in parte o fino al massimo del loro tornaconto, attratti proprio come gazze dal luccichio di un oggetto.

 

 

N. 77  I’ vino bbono sta da ‘e botte ciuche

Il vino migliore sta nelle botti piccole

 

Quanto espresso dal detto, era letteralmente vero, una volta, quando ogni contadino aveva la sua cantina e ciascuno metteva da parte, per il consumo familiare, una piccola quantità di vino, di solito il migliore, che non essendo molto, poteva essere contenuto in una piccola botte, che si teneva nella parte più profonda della cantina: la conserva. Lo stesso detto però, ma solo in senso figurato, spesso era riferito a piccoli contenitori di oggetti preziosi o a persone piccole, per significare che il valore di un individuo, in senso lato, non dipende dalla sua mole o statura, anzi, alcuni, autolodandosi, vogliono far intendere che le persone piccole sono da preferire a quelle più alte e dal fisico più prestante.

 

 

N. 78  ‘Sta vorda, o a Roma a fa’ i’ signore o carbonaro alla macchja

Con questa impresa o attività che sto per intraprendere, o ci si arricchisce e si migliora il tenore di vita, o si diventa poveri in canna e si vive peggio di prima.

 

Per i nostri antenati, quasi tutti contadini, era luogo comune pensare che chi viveva a Roma o in una città, in genere, fosse ricco, mentre chi faceva il carbonaro e viveva tutto il giorno nei boschi, vivesse in una condizione peggiore dei contadini. Perciò un contadino che intraprendeva una nuova e sconosciuta attività, era solito pensare che il nuovo lavoro lo avrebbe portato ad un radicale cambiamento del suo tenore di vita: tanto migliore o tanto peggiore di prima.

 

 

N. 79  Tocche fasse ‘mmazzà da i mmacellari bboni

Anche per morire bene, bisogna farsi uccidere da macellai bravi

 

In questa estremizzazione di ottenere un risultato ottimale, i macellai bravi, stanno ad indicare un qualsiasi professionista che conosce bene il proprio mestiere. Pertanto chiunque, per qualsiasi motivo, abbia bisogno della prestazione di un servizio da parte di altri, deve cercare il migliore e più preparato professionista che fa al caso suo.

 

 

N. 80  Co’ nu schiaffo, te faccio gira’ comme ‘na marifironzola

Con un ceffone, ti faccio fare tanti giri , quanti ne fa una marifironzola

 

Penso che più di un lettore si sarà già domandato quale animale, persona o cosa voglia significare  ‘a marifironzola. Quelli un po’ granni come il sottoscritto, anni fa, ne avranno viste ed osservate parecchie o, se non altro, sapranno che cosa sono. Sono delle piccole e graziose farfallette, non più lunghe di 2 centimetri, di color quasi nero, tendente al marrone ed al viola, con sulle ali delle macchioline tondeggianti, colorate tra l’arancione ed il giallo. Svolazzavano lentamente nell’aria e intorno ai fiori, e giravano e giravano a lungo prima di posarvisi sopra. Fino a qualche anno fa se ne vedevano molte soprattutto in campagna, ma da qualche tempo la loro presenza è alquanto diminuita, sia nell’ambiente che tra le parole del nostro dialetto.

 

 

N. 81  Disse la merla al tordo: Sentirai i’ bbotto si nun si’ sordo

Disse una merla al tordo: Tra poco sentirai lo sparo se non sei sordo

 

Entrambi gli uccelli, ambite prede dei cacciatori, sembra che stiano parlando del loro futuro, quando la merla manifesta al tordo un presentimento che le fa intuire qualche evento non affatto piacevole. Il paragone trasferito al genere umano, riguarda due persone: la prima ha il sentore che le cose stiano in senso negativo, mentre l’altra non si avvede di nulla. Allora cerca di farla riscuotere dalla sua ingenuità e di prepararsi al peggio.

 

 

N. 82  Da’ ‘e persiche nasciono i persichicchj

Dai semi contenuti nei noccioli delle pesche, nascono necessariamente soltanto piccole piantine di peschi.

 

E’ una frase che afferma un concetto chiaramente ovvio, ma che a volte alcuni di noi sembra che non vogliamo condividere. La natura ha le sue leggi che, per quanto ci vogliamo accanire, non riusciremo mai a sovvertire.

 

 

N. 83  Meglio que’ che un piatto ‘e facioli

E’ meglio questa, sia essa cosa  evenienza o altra possibilità, di un piatto di pasta e fagioli.

 

Anche in questo detto, dobbiamo far riferimento alle nostre tradizioni contadine riguardanti precisamente l’alimentazione. Prima, per un contadino che tornava a casa dopo una giornata di lavoro nei campi, quando si sedeva a tavola, il miglior sollievo, ristoro e soddisfazione, glielo fornivano un bel piatto di pasta e fagioli.

Cito a tal proposito due esempi tratti, il primo dall’Arte Pittorica: il notissimo quadro del Carracci: “Il mangiatore di fagioli”; il secondo, tratto dalla Letteratura: Bertoldo, il rozzo contadino medioevale divenuto cortigiano e consigliere di Re Alboino, che non riuscì mai ad adattarsi alla vita di corte ed ai suoi lauti banchetti, per cui quando morì, sul suo epitaffio fu scritto: “Morì con aspri duoli, per non poter mangiar rape e fagiuoli”.

Tornando al nostro detto, sentir dire da un contadino un que’ è meglio de un piatto ‘e facioli, evidentemente ciò che gli è capitato o ciò che gli è stato dato, è una grande e magnifica evenienza o una graditissima sorpresa.

 

 

N. 84  Quanno i’ ciuco parle, i’ granne ha già parlato

Quando il piccolo parla, il grande ha già parlato.

 

A volte in famiglia i grandi parlano delle loro faccende alla presenza dei bambini che, pur essendo immersi nei loro giochi, ascoltano e memorizzano ciò che i grandi vanno dicendo. Non di rado, proprio nei momenti meno opportuni e proprio davanti a chi non dovrebbero riferire certi discorsi, spiattellano alcuni particolari o riferiscono alcuni discorsi che mettono in difficoltà i loro grandi i quali per disimpegnarsi, rimediano, borbottando evasivamente: “Non diamo retta a cosa dicono i piccoli!”. Il detto che è frutto di tali situazioni, anche imbarazzanti, rispecchia quella che in realtà è la pura realtà: il piccolo, ingenuamente, non fa altro che ridire ciò che i grandi hanno detto in precedenza.

 

 

N. 85  Statte fermo un minuto, chè me pari un triccaiello

Stai fermo e calmo per qualche minuto, perché mi sembri un triccaiello (una trottola).

 

Anche questa volta, come al N. 80, con la marifironzola, ci troviamo di fronte a qualcuno che non riesce a star fermo e si agita in continuazione davanti a chi gli sta parlando. Come per l’insetto del N. 80, anche per scoprire cos’è il triccaiello, dobbiamo provare a dare  un’idea di cosa esso sia, almeno per i più giovani e per quelli che, se pur grandi, non ci hanno mai giocato.   

Era un giocattolino della grandezza, più o meno, del pugno chiuso di un bambino, ricavato da un tronchetto di legno lavorato al tornio, avente la forma di una piccola pigna, con infissa sulla punta la parte aguzza di un chiodo non più lunga di mezzo centimetro. Tutt’intorno aveva delle scanalature sulle quali si avvolgeva una cordicella di un mezzo metro circa, poi tenendo un capo di questa legato ad un dito, si lanciava verso terra il triccaiello, con la parte appuntita rivolta verso il basso. Il lancio, se ben effettuato, imprimeva all’oggetto una forte rotazione, per cui, avendo come perno la punta del chiodo infisso, girava velocemente su se stesso per qualche minuto o forse meno.

Quindi la persona paragonata ad un triccaiello, era un individuo che non riusciva a star fermo per qualche tempo davanti al suo interlocutore.

 

 

N. 86  Nu sta’ a fa’ tanta campesta

Non stare a fare tanto calpestio

 

Nel linguaggio dei nostri contadini, ‘a campesta era l’azione del camminare e calpestare a lungo un terreno agricolo arato, seminato o comunque ben lavorato, col risultato di danneggiare i semi o le piantine appena nate o di rendere duro il terreno soffice.

Nel nostro detto il calpestio è inteso in senso figurato, è un invito perentorio a non dilungarsi nel parlare, un richiamo alla essenzialità ed a non argomentare senza costrutto.

 

 

N. 87  Chi nun magne, aggià ha magnato

Chi non mangia, ha già mangiato

 

In tempi lontani, ma ancor oggi anche se di meno, quando una persona veniva invitata a mangiare o ne aveva davanti a sufficienza e non mangiava, si traeva solo una conclusione: non aveva fame e non mangiava perché aveva già mangiato a sufficienza e da poco tempo.

Non era concepibile che una persona normale, con la povertà e con la penuria di cibo che affliggeva la maggioranza delle persone, rifiutasse un invito a mangiare se non avesse mangiato a sazietà e da poco tempo.

 

 

N. 88  Gira Marì che te pago un boccale

 

Il detto, in verità non lo conosco e non l’ho sentito mai declamare in alcuna situazione. Non riesco ad abbinarlo ad alcuna persona o momento di vita particolare.

 

 

N.  89  Que’ è da riccontà ‘a sera ‘e Natale

Quello che abbiamo appena raccontato, è da tenere in serbo per la sera della Vigilia di Natale

 

La sera della Vigilia di Natale, prima , tanti anni fa, era particolarmente attesa da tutti, grandi e piccini, per le grandi adunate di famiglia intorno ai grandi camini accesi, in attesa della nascita del Bambinello.

Non esistendo ancora i mezzi di intrattenimento e di comunicazione attuali, radio e televisione, questi erano sostituiti da alcune persone delle famiglie che si riunivano e che erano inclini a parlare, a raccontare, a rievocare, quasi a recitare fatti, avvenimenti e aneddoti buffi, tragici, eccezionali o comunque che avessero un qualcosa di particolarmente interessante.

Tutti questi venivano tenuti in serbo per essere riproposti all’attenzione dei presenti per la sera della Vigilia di Natale.

 

 

N.  90  Si nu sti bbono chiamo o te porto da ‘a madre ‘e Bassanello

Se non stai buono e non ti comporti bene, chiamo o ti porto dalla mamma di Vasanello.

 

Era questa una velata minaccia rivolta dalle mamme ai loro bambini quando disobbedivano o non si comportavano bene in alcune situazioni. Le mamme lasciavano intendere ai loro figli che oltre ad esse, esisteva anche un’altra mamma cattiva, brutta tanto da mettere paura che abitava a Bassanello, così, quando io ero ancora bambino, si chiamava l’attuale Vasanello.

E’ un paese Vicinissimo a noi, ma ai tempi della mia fanciullezza, chi c’era andato mai! Immaginavamo, noi bambini nella nostra fantasia, che stesse lontanissimo e fosse un posto da cui non ci sarebbe stata mai alcuna possibilità di ritorno. Dove avremmo vissuto accanto ad una donna che poco avesse della dolcezza delle nostre mamme.

Ricordo inoltre che alcune mamme dicevano anche ai loro figli per spaventarli quando non si comportavano bene, che li avrebbero portati dalla matregna  (la matrigna), pronunciando questa parola, marcando la voce sul -tre- , facendo vibrare sonoramente la “r” di -tre- ; ricordo che nel sentir pronunciare in quel modo e con un certo tono la parola matregna incuteva veramente paura, per non dire anche terrore.

Altri tempi! Ora almeno per la maggior parte, ci vuole ben altro per spaventare i bambini, nascono già grandi e solo per qualche anno credono ancora alla Befana!

 

Ed anche per questo anno, non so se bene o male , abbiamo esemplificato e reso più chiare, almeno lo spero, alcune espressioni, alcune astruse parole del nostro antico dialetto.

Arrivederci  alla  prossima Tombola  Vivente! Almeno  lo spero.

 

Un cordiale saluto a tutti i Tommolari, Numeri Viventi e Spettatori

 

                                                                                     dal N. 59   Lillo