giugno 2013
Tombola Vivente N. 3 del 26 dicembre
2012
Commenti ed esemplificazioni riguardanti i detti e i proverbi di cui
sopra
di Lillo Pacelli
Anche quest’anno, tra detti e proverbi, ne abbiamo
trovati altri 90, perciò ariècchime. Ma quest’ultima parolina,
tanto siamo in tema, mi riporta alla mente un altro detto che potrebbe
essere il primo per il prossimo anno: “Ariècchime! E troppe vorde
riècchimeraio!” Traduco per i non proprio Vignanellesi: “Eccomi di
nuovo! E troppe volte ancora, speriamo, ritornerò!”
90 per 3 = 270. Mi sembra impossibile che ne abbiamo messi insieme così
tanti. Però così è.
Commentiamo ora quelli di quest’anno,
esemplifichiamoli ed auguriamoci buon lavoro, fin da ora, per il
prossimo anno. Se vogliamo continuare, sarebbe però opportuno che
arrivassero i suggerimenti e la collaborazione anche di altri
Vignanellesi, dai più giovani, che potrebbero essere i “portavoce”,
ai più grandi che potrebbero essere “la voce”.
N. 1 S’è ritirato comme nu bearello.
Quella persona o quell’oggetto, si è dimagrito o si è rimpiccolito
proprio come si accorcia e si raggrinzisce nu bbéarèllo dopo che
è stato cotto.
I’ bbéarèllo, per noi vignanellesi, è
una specialità della nostra tradizione culinaria. E’ un tratto
dell’intestino del maiale, trattato, condito, essiccato in un modo
che sarebbe un po’ lungo scrivere, ma è tanto buono da mangiare. Ha
un difetto però: ne metti a cuocere un pezzo lungo un palmo, se
tutto ti va bene, te ne rimane un pezzetto di una decina di
centimetri.
N. 2 L’amore passe, i ffilagni restono
L’amore passa, può finire, ma i filari di viti, e la possidenza in
genere, rimangono.
Sono parole di tanti anni fa, quando una
persona era valutata quasi unicamente in base alla quantità ed alla
lunghezza dei filagni di viti che possedeva. Spesso era ciò
che talvolta i genitori dicevano, a mo’ di consiglio, a qualche loro
figlio o figlia che, dovendosi fidanzare pensando ad un futuro
matrimonio, non era del tutto entusiasta del passo che stava
facendo, perché magari avrebbe preferito un partner di maggior
gradimento, pur senza tanta robba, piuttosto che un buon
partito ma non troppo ben accetto.
N. 3 Quello è roscio comme nu jammero.
Quella persona è rossa come un gambero(cotto).
Il detto, il più delle volte, non era riferito
a persona che avesse capelli o carnagione rossiccia, ma a chi, in
qualche situazione particolare o momentanea, diventava rosso per la
vergogna, per la timidezza, per la rabbia o proprio l’ira, tanto da
diventare rosso come un gambero dopo che è stato fritto e tirato
fuori dall’olio bollente.
N. 4 Fiore de fico, quello che sento dico
Fiore di fico, ciò che ho sentito dire, adesso io dico.
E’ uno dei tanti fiori che venivano scomodati,
a volte creati ed utilizzati per fare la rima con il secondo verso
degli stornelli, molto spesso dispettosi scanzonati ed allusivi. In
questo, il nostro stornellatore vuol significare che, ciò che ha
detto o dirà cantando, non è ciò che lui pensa, ma quello che sente
dire dagli altri, da ‘a gente.
N. 5 Sa fa’ tutte ‘e cantate comme i’ chjù.
Quella persona ha una parlantina molto diversificata proprio come il
canto del chjù.
Il chjù, meglio conosciuto come l’assiolo, è un
rapace notturno che emette il suo canto, un po’ variegato, durante
le notti. In questo detto viene usato come termine di paragone con
una persona che nel parlare sa ben usare parole e modulazioni della
voce in toni che vanno dal serio, allo scherzoso, al triste e così
via.
N. 6 Quest’anno jè arda ‘a Pasqua!
Quest’anno la Pasqua è alta perche cade negli ultimi giorni di Aprile.
Sembrerà strano, ma il giorno della ricorrenza
della Pasqua, che nel detto è alta, è del tutto insignificante. Il
fatto che sia alta, ma poteva essere anche bassa cioè in Marzo, non
fa succedere assolutamente nulla. Quest’anno jè arda ‘a Pasqua,
è una frase, come un’altra qualsiasi, per interrompere una
chiacchierata troppo lunga e monotona dell’interlocutore del nostro
dicitore. Questo, non potendone più, vuol cambiar discorso,
interrompendone uno lungo e noioso non affatto piacevole e gradito.
N. 7 Si nun sa’ fa, ‘n facessi!
Se non sei in grado di far qualcosa, non la fare!
E’ la constatazione di chi parla osservando
qualcuno compiere un’azione, un lavoro o una piccola attività che
non riesce a portare a termine perché non ne è capace. Pertanto gli
consiglia, anche in modo spicciolo e pure un po’ risentito, di non
continuare a farla.
N. 8 Stavorda mettemo ‘a chiave sotto ‘a
porta.
Stavolta mettiamo, o metteremo, la chiave sotto la porta.
L’espressione ha un tono triste, sconsolato e
quasi rassegnato. Chi lo dice è implicato in una situazione
complicata e dall’esito molto prevedibilmente negativo, insieme ad
un suo compagno di sventura. Per loro le cose non vanno bene, anzi,
vanno piuttosto male e tendono al peggio. Mettere la chiave sotto la
porta, nel gergo paesano, significa essere giunti alla conclusione
disastrosa di una impresa, al suo fallimento, alla fine peggiore che
ci si poteva augurare: alla bancarotta.
N. 9 Fior de finocchjo, nu mme lo nnegà,
ché te ci ho visto, a fa’ dindirindella sopre i’ cocchjo!
Fior di finocchio, non me lo negare, poiché ti ci ho visto/a, a fare
dei giochetti lassù in quel posticino un po’ appartato del
giardino del Castello.
Ecco un altro fiore che si prende a prestito
per la rima in uno stornello un po’ dispettoso ed allusivo. Chi lo
canta, apostrofa il suo o la sua partner, facendogli intendere di
essere stato testimone di una sua scappatella insieme a
qualcuno. Fare dindirindèlla, da noi, significa giocare
sull’altalena a spingere o ad essere spinti, quindi divertirsi in
compagnia. Il cocchjo, poi, è una parte del Giardino
all’italiana annesso al Castello Ruspoli, tutto boscoso e fitto che
favorisce l’intimità.
N. 10 A un parmo da i’cculo mio, facete
quello che ve pare
Ad un palmo di distanza dalla mia persona fate ciò che volete, sia
di bello che di brutto.
Chi lo dice è una persona che non vuol essere
tirato in ballo e lo dice chiaramente a chi gli sta vicino,
facendogli intendere che non gli interessa affatto come si
comporterà in qualche sua situazione particolare, purché egli non
sia in qualche modo chiamato in causa,
N. 11 Tocche fa’ i’ ppasso comme è lunga ‘a
cianca.
Bisogna fare il passo a seconda di quanto è lunga la gamba.
E’ questo un proverbio che si trova cucinato un
po’ in tutte le salse ed in tutte le trattorie. Esso è chiaramente
un detto da benpensanti, di quelli una volta definiti: co’ ‘a
capoccia sopre ‘e spalle. Ci consiglia insomma di valutare le
nostre capacità e possibilità, prima di avventurarci in un’impresa,
onde evitare spiacevoli conclusioni.
N. 12 ‘I stracci vanno sempre per aria
Gli stracci , in tutte le situazioni, sono sempre quelli che hanno
la peggio.
Nel detto, gli stracci, stanno a significare le
persone più deboli, indifese e derelitte della società. La locuzione
“vanno per aria”, è un’amara constatazione, perché in una
disputa, in una situazione critica di qualsiasi genere sono sempre
quelli che di più ne vengono a soffrire.
N. 13 Quello è ruzzo comme l’occhjo ‘e i’
zzappone.
Quella persona è rozza, arrugginita come lo è l’occhio di una zappa
grande.
L’aggettivo ruzzo, più propriamente,
significa coperto di incrostazioni come fango e ruggine. In una
zappa, l’occhio è l’anello, un po’ schiacciato quasi ovale, nel
quale è infilato il manico. E proprio questo è la parte della zappa
sempre coperta di fango, ruggine ed umidità, mentre la lama che
lavora il terreno e da esso è levigata, è sempre pulita e lucente.
N. 14 Decchì se bbatte ‘a fame co’ ‘e
pèrtiche!
Qui, quest’anno, da come si sono messe le cose, faremo la fame!
Era l’espressione realistica e sconsolata degli
ambienti contadini del nostro paese quando al termine di una
stagione agricola molto inclemente, si era prodotto un raccolto
scarsissimo. Prevedendo un futuro in cui la carestia la avrebbe
fatta da padrone, il pensiero va alle pertiche, i lunghi
bastoni con i quali si sarebbero dovute battere le messi prima di
portarle nel granaio, pertiche che, in senso figurato, per
quell’anno, sarebbero servite invece per battere l’abbondante fame.
N. 15 Tempo di carestia, pane di veccia.
Quando il raccolto di grano è scarso, bisogna accontentarsi di quello
impastato con la farina ricavata macinando la veccia.
Ci si presenta ancora un detto che tiene sempre
in primo piano la realtà agricola del nostro paese, legata quasi
unicamente al raccolto dei campi. Evidentemente, nell’annata cui fa
riferimento il detto, la raccolta del grano è stata scarsissima e,
per impastare il pane, si sarebbe dovuto macinare la veccia. Questa
è un legume selvatico simile alla cicerchia ed alla lenticchia, che
cresce spontaneamente nei terreni incolti e lungo i bordi delle
strade. E’ di infima, quasi nulla, proprietà nutritiva, di scarso
sapore e, per giunta in natura, se ne trova pochissima.
N. 16 Stavorda ‘nnamo fora co’ ll’accuso.
Questa volta vinceremo la partita a carte, andando oltre il limite dei
150 punti, con i punti messi insieme con l’accuso.
E’ un’espressione presa a prestito da un gioco
a carte, con quelle napoletane (denari, coppe, spade e
bastoni), in cui vince il giocatore che per primo raggiunge i 150
punti. In questo gioco i punti totali a disposizione dei due
giocatori per ogni mano o “manche” sono 120. Perché uno dei
due giocatori raggiunga o superi i 150 punti necessari per vincere
la partita, di solito occorre giocare due o tre mani. Però se
un giocatore accusa, cioè riesce a combinare, con le carte
che ha in mano, uno o più abbinamenti di cavallo e re, dello
stesso seme, ognuna di queste coppie gli vale 20 punti in più che
vanno ad aggiungersi ai punti totalizzati con le carte già da lui
giocate e vinte. Per cui, andare fuori con l’accuso,
significa vincere la partita in anticipo, alla grande. Nel
gergo paesano però, il significato dei detti è usato spesso nel
senso opposto. Per chi parla nel detto la vittoria che viene
sbandierata alla grande, è in realtà una sonora sconfitta,
che trasferita alla nostra, ormai nota, economia contadina, faceva
presagire un futuro poco allegro, un’annata, ancora, di sacrifici.
N. 17 Stemio zsitti comme l’oglio.
Stavamo fermi e in silenzio proprio come l’olio, che pure se è
versato, non fa alcun rumore.
Chi fa l’affermazione si è trovato, insieme ad
altre persone, in una situazione in cui era necessario ed opportuno
non parlare né fare alcun rumore, proprio come fa l’olio che scende
denso, liscio e silenzioso quando viene versato.
N. 18 Ha’ da lascià sempre l’enicio.
Tu hai la pessima abitudine di lasciare sempre, in qualche lavoro che
stai eseguendo, qualcosa di incompiuto o, riferito ai pasti, un piccolo
avanzo di cibo nel piatto.
Nel nostro dialetto è chiamato enicio,
un sasso bianco e levigato trovato in mezzo alla ghiaia, simile
nella forma e nel colore ad un uovo di gallina, che le contadine
mettevano a mo’ di esca nel nido di paglia in cui le galline
dovevano abituarsi a deporre le uova e lo lasciavano sempre lì quasi
come invito. Invece l’enicio, riferito a quando si sta a tavola, sta
a significare un piccolo avanzo di cibo lasciato nel piatto ad ogni
portata, da qualche commensale che ha questa strana abitudine.
N. 19 “Quanto ha’ fatto a roncà i’ llino?”,
“Quanto da ‘a mella a i’ persichino!”
“Quanto terreno hai lavorato strappando le piante di lino?”, “Quanto
ce n’è tra la pianta di mele e quella piccola delle pesche!”
Roncare è l’abbreviazione di stroncare,
estirpare dal terreno. Il lino, come le fave, i fagioli ed altre
piante, al termine del loro ciclo vitale, per essere utilizzate e
pronte all’uso, debbono essere prima estirpate dal terreno per poter
essere lavorate. Nel nostro detto, una persona domanda ad un suo
amico, su quanto terreno ha estirpato il lino durante la giornata di
lavoro. La risposta che riceve, apparentemente, è precisa: da lì a
lì, tra quelle due piante. In verità gli ha detto un bel niente,
perché il suo amico non conoscendo il terreno nel quale lui è stato
a lavorare, non sa nemmeno quanto distano tra loro le due piante.
N. 20 La fa’ lunga quanto ‘a cacata ‘e
Macedonio.
La fai lunga (una chiacchierata o qualsiasi altra azione), quanto il
tempo che impiegò Macedonio per andare a fare un suo bisogno corporale.
Si racconta da noi, che una volta, anzi più
volte, un certo contadino di nome Macedonio, andando a lavorare in
opera, quando si sentiva stanco, per riposarsi un po’, con la scusa
di dover andare a fare un urgente bisogno corporale, si appartava
dagli altri e tornava al lavoro dopo un certo tempo abbastanza lungo
e ritenuto da tutti eccessivo alla bisogna. Con il passare degli
anni, tramandandosi quegli episodi, quel lasso di tempo
eccessivamente lungo, è diventato simbolo di estrema lungaggine nel
parlare o nel portare a termine qualsiasi lavoro.
N. 21 Quanno ho pensato pe’ i’ cculo mio, de
quello dell’addri nu mme ne curo
Quando ho pensato per gli affari miei, delle faccende degli altri
non me ne importa nulla.
E’ quanto pensa e dice una persona che è
eccessivamente egoista poiché pensa unicamente ai suoi interessi e
non guarda ciò che avviene intorno a lui, accada quel che accada.
N. 22 Cammina pesciarò si n’ te rincresce,
si nun cammini tu, cammine i’ ppesce
Cammina pescatore-venditore di pesce, se non ti affretti tu, cammina
(si guasta) il pesce.
E’ un invito ad un pescatore-venditore di pesce
a camminare, a far presto ad andare al mercato, altrimenti cammina
(nel senso di: si guasta) il pesce, poiché è un alimento alquanto
deperibile. In genere però il proverbio viene usato in senso molto
lato, soprattutto per stimolare qualcuno a non attardarsi troppo nel
portare a termine un lavoro iniziato, magari da tanto tempo.
N. 23 Semo ‘rivati da ‘a mella.
Siamo giunti,a lavorare il terreno, vicino alla pianta di mele
Per capire fino in fondo il senso del
proverbio, bisogna fare una premessa. Fino ad una sessantina di anni
fa, tutte le campagne di Vignanello erano piantate quasi
esclusivamente a vigneti. In ogni appezzamento, in ogni filare,
c’erano piantate sparse qua e là, oltre alle numerosissime viti,
decine di piante da frutta: meli, peri, peschi, ciliegi, fichi, ecc.
Si racconta che una volta un ricco proprietario terriero, in sua
assenza, mandò alcuni operai a vangare in un suo vigneto molto
esteso. Quando a sera gli operai andarono a chiedergli la paga per
il lavoro svolto nella giornata, il padrone chiese loro in quale
punto del terreno erano giunti a lavorare. Uno di loro gli rispose:Semo
‘rivati da ‘a mella! Il padrone pagò loro la giornata, pur non
potendosi rendere conto di quanto terreno avessero lavorato perché
nel suo terreno, le piante di mele ce n’erano qua e là sparse
tantissime. Per cui ancor oggi, citare il detto vuol significare in
modo molto, ma molto approssimativo, a qual punto si è giunti con un
certo lavoro.
N. 24 Quello è jotto comme ‘e mice prene
Quella persona è ghiotta come le gatte incinte.
Nel modo di pensare popolare, i gatti sono per
antonomasia tutti abbastanza ghiotti. Perciò essere paragonati ad
essi , in quanto alla golosità, è proprio il massimo. Da ultimo
essere paragonati a delle gatte, addirittura incinte, con tutto ciò
che ne consegue in fatto di voglie, è tutto dire
N. 25 E’ Natale, famme ‘a mancia si te pare.
E’ Natale, fammi la mancia se lo ritieni opportuno.
Per Natale, a Vignanello, da sempre, i
genitori, i nonni, gli zii e i compari, danno la mancia ai loro
figli, nipoti o comparucci . Il detto veniva cantilenato dai
bambini ai “grandi”, sempre in tono scherzoso e spesso con una
piccola aggiunta, anch’essa recitata sorridendo: e se nu me la
vòi fa’, nun te chiamo più papà / nonno / zio / compare.
N. 26 Emo chiuso ‘a stalla mo che so’
scappati i bboi
Abbiamo chiuso la stalla ora che sono scappati i buoi.
E’ l’amara constatazione di chi pur avendo
intuito la precauzione da prendere per eliminare un certo
inconveniente, si accorge che ora è del tutto inutile ricorrere a
quella soluzione, poiché il danno che si temeva che accadesse, ormai
è già accaduto.
N. 27 Si ‘éa mozzicato ‘a sinna ‘e ‘a madre,
nun ‘éa fatto un zsòrdo ‘e danno!
Se avesse morso il seno di sua madre, lei non lo avrebbe allattato
e, morendo, non avrebbe causato un soldo di danno.
E’ un brutto ed orribile giro di parole, certo
un po’ crudo, per dire che un individuo se non fosse venuto e
cresciuto al mondo, sarebbe stato meglio per sé e per gli altri suoi
simili.
N. 28 Quello ci ha ‘a casa nera comme ‘a
Madonna ‘e Loreto.
Quella persona ha la casa con le pareti interne nere come il volto
della Madonna di Loreto.
Quella persona ha poca cura della propria casa,
tanto che è malridotta ed ha le pareti nere per il fumo del camino e
per l’incuria, dello stesso colore del volto della Madonna di
Loreto.
N. 29 E che è, ‘a casa ‘e Bacano éh!
Ma questa, o questo posto, in cui ci troviamo, che è come la casa di
Bacano?
Il detto viene utilizzato per denotare
un’abitazione in cui non si trova nulla, nemmeno le cose più
essenziali. Non ci è dato sapere chi fosse il Bacano tirato in ballo
dal detto, ma possiamo supporre che non era così abbiente.
N. 30 Ci ho ‘na fame che ‘bbaio.
Ho tanta fame come un cane che abbaia, proprio per la fame.
Spesso si sente dire che cani e lupi quando
sono da troppo tempo digiuni, abbaiano per la fame. Il soggetto del
nostro detto, evidentemente, chissà per qual motivo, ne ha talmente
tanta da abbaiare proprio come loro.
N. 31 I’ ccompare co’ ‘a commare, fanno
quello che glie pare.
Il compare (il padrino) e la comare (la madrina), fanno e disfanno come
vogliono.
Il compare e la comare, oltre ad essere per i
bambini i padrini del battesimo e della cresima, nel comune parlare
della “gente”, intesa questa come “voce del popolo”,
raffigurano due persone che quando operano in combutta tra loro,
sono poco raccomandabili. Noi, tanto per restare entro i personaggi
più noti della nostra letteratura infantile, li identifichiamo con
il Gatto e la Volpe che mettono insieme i loro subdoli consigli per
gabbare l’ingenuo Pinocchio. Quindi senza andare a ricercare nella
letteratura più elevata di grado, ci fermiamo ad un livello un po’
più in basso, cioè alla nostrana scena politica, attualmente discesa
ad un livello di degrado morale ed istituzionale veramente infimo,
che ci fornisce, specialmente in questi ultimi tempi, un vastissimo
e multicolore campionario di Gatti mammoni e di Volpi
astutissime, che tranquillamente e con molta faccia tosta, in barba
a tutti noi, la fanno da padroni.
N. 32 I’ lletto è rosa, chi ce va sopre,
pure si ‘n dorme se riposa.
Il letto è di color rosa, chi ci si sdraia sopra, anche se non si
addormenta, almeno si riposa.
E’ questo un detto, o proverbio, o consiglio
che ho sentito tante volte, da bambino, declamare da mia nonna Maria
Buzi (1878-1961), quando qualche contadino tornando stanco dalla
campagna, si fermava a parlare con lei, davanti a casa sua,
nell’assolato spiazzo de’ ‘e Croci.
N. 33 Fiore d’ornèllo, si mme dà da magnà,
tengo pe’ quello.
Io sto dalla parte di chi mi dà da vivere.
Anche questa volta, per trovare la rima alla
stornellata, si è scomodato un altro fiore un po’ strano. La rima
c’è, il resto è un po’ opinabile, però riempie la pancia al cantore,
cosa di non poco conto, in specie molti anni fa quando, mi pare di
averlo già riscritto, avé’ i’ ccorpo pieno, non era cosa di
poco conto e non guastava.
N. 34 Chi bene chiude, bene apre.
Chi prende le precauzioni adatte non ha sorprese sgradite.
Il proprietario di questa porta, ben chiusa
prima di uscire, non dovrà rammaricarsi quando tornerà a casa,
perché troverà tutto come lo ha lasciato, salvo brutte sorprese,
speriamo.
N. 35 Si nu scappe ‘a Precissione ‘e Cristo
Morto, va male tutto i’ riccorto.
Se il Venerdì Santo, non si può fare, quindi non esce la processione
del Cristo Morto perché il tempo è brutto, va male tutto il raccolto dei
campi.
Non è raro che la Settimana Santa abbia le
giornate più brutte dell’inizio della primavera e questo evento
spesso ricorrente è stato ben notato fin dalle nostre generazioni
trapassate, tanto da dedicare ad esse questo proverbio. La realtà è
che la Settimana Santa, e la Processione del Venerdì Santo, cadono
tra marzo ed aprile, ma di più in aprile, ed è questo un periodo
cruciale e decisivo per la crescita e lo sviluppo delle spighe del
grano e di tante altre colture. Pertanto se il tempo è inclemente,
soprattutto con vento, pioggia e temporali e giornate fredde, il
raccolto futuro ne risente negativamente e ne rimane pregiudicato.
N. 36 I’ ppeggio sordo è quello che nu vo’
sentì.
Il peggior sordo è quello che pur avendo un buon udito, non vuole o
fa finta di non sentire.
E’ un proverbio che non ha bisogno di alcuna
esemplificazione.
N. 37 Fior de vanija, quello che ha fatto ‘a
madre fa ‘a fija.
Fior di vaniglia, tale la madre, tale la figlia.
Altro fiore, altra rima, altra realtà che però,
fortunatamente, talvolta sarà smentita dai fatti, almeno
auguriamocelo.
N. 38 Fa più ‘na botta de mazza che cento de
martello.
E’ più efficace un unico colpo di mazza che cento colpi, pur
continuativi, di martello.
Molto spesso, negli ambiti più disparati, è più
valido un drastico rimedio che tanti, piccoli, se pur continuati.
Gli fa da contrasto però il motto latino; “Gutta cavat lapidem”,
cioè: la goccia scava la pietra. Come la mettiamo?
N. 39 Quello nun sa né parlà né sta’ zitto.
Quella persona sbaglia sempre, sia che parli sia che stia in silenzio.
Evidentemente è un individuo che quando parla,
lo fa a sproposito, mentre quando rimane in silenzio, sarebbe invece
bene che si facesse sentire.
N. 40 Si nu sti bbono, te do nu stiaffo e te
faccio scappà un boccale ‘e sangue.
Se non la smetti di dar fastidio, ti do uno schiaffo e ti faccio uscire
un boccale di sangue.
Purtroppo tra i tanti detti paesani, anni fa,
si sentiva urlare, anche se raramente , queste non belle
espressioni. Ne prendiamo atto, ma augurandoci sentitamente di non
doverle ascoltare più.
N. 41 Pe’ bbono nu’ mme piglià, pe’ gattio
nu’ mme lascià.
Non mi prendere per buono e non mi lasciare perché cattivo.
Questo detto l’ho sentito dire più volte dai
più grandi di me quando una coppia di fidanzati si sposavano. E’
accaduto infatti che due fidanzati che prima di sposarsi, anche a
detta dei “loro”, erano uno meglio dell’altro sotto ogni punto di
vista, dopo il matrimonio uno dei due “faceva una brutta riuscita”.
All’opposto, altre volte, due fidanzati che per colpa sempre di uno
dei due spesso bisticciavano o si lasciavano per qualche tempo, dopo
il matrimonio, quello che prima era i’ ggattio, quello che
causava le liti, alla resa dei conti si rivelava il migliore dei
due.
N. 42 Si comme’a sora Costanza, nun ci ha né
culo né petto né panza.
Sei come la signora Costanza che non ha proprio in fisico da Miss.
Tali apprezzamenti poco gratificanti, sono
rivolti, anche se in tono un po’scherzoso, ad una donna non
eccessivamente formosa, ma forse anche poco brillante dal punto di
vista intellettuale.
N. 43 Vaglie a fa’ bbene da i’ pporco.
Vai a far del bene ad un maiale.
Come tante altre bestie, il maiale è una di
quelle che non apprezzano tante gentilezze o riguardi, per cui ci si
rimane male dopo aver cercato di fargli del bene.
N. 44 Pe’ piove e pe’ cacà nun tocche Dio
pregà.
Per desiderare la pioggia o per i bisogni corporali, non si deve
scomodare Dio.
Per entrambe le richieste, anche se a volte
sarebbe augurabile che fossero esaudite, è superfluo ed esagerato
richiedere l’intervento di Dio, poiché è la natura stessa che le fa
accadere.
N. 45 Predicato’ che predichi l’Avvento, nun
predica’ per me ché perdi tempo.
Predicatore che predichi in chiesa durante il periodo dell’Avvento, non
predicare per me tanto non vengo a sentire le tue parole.
Questo è il senso letterale del detto, ma da
noi era usato in tutt’altre occasioni,Principalmente quando
qualcuno, notoriamente non molto stimato o che non godeva buona
fama, tuttavia, anche se metaforicamente, saliva su un pulpito e
catechizzava gli altri invitandoli, quando era lui l’ultimo, a
credere o mettere in pratica le belle e buone cose che auspicava
facessero gli altri.
N. 46 Vedi eh! I’ bue gliè dice cornuto
dall’asino.
Guarda che cosa strana: il bue con quelle sue belle corna, dice
“cornuto” all’asino.
E’ proprio il colmo: quando chi ha un difetto o
non è in grado di fare qualcosa, attribuisce queste sue
manchevolezze a qualcun altro che, magari, pur non manifestandolo
sfacciatamente per modestia, è molto migliore di lui.
N. 47 Coste più i’ ccartoccio che i’ ppepe
.
Costa di più l’involucro per contenerlo che il pepe che vi è contenuto.
E’ ciò che si dice quando per ottenere un certo
risultato di scarso e quasi insignificante valore, si deve compiere
un lavoro esagerato. E’ come dire: Il gioco non vale la candela,
oppure: E’ più ‘a spesa che l’impresa.
N. 48 Quello nun sa di’ né ire né òre.
Quella persona non è in grado di parlare in modo accettabile e
comprensibile.
Anche questo detto, come altri, esprime un
concetto già trattato, come : Nun sa né parlà né sta zitto, oppure:
Quello, comme parle sbaglie.
N 49 Si nu sti bbono, te faccio portà via
da i’ spione
Se non ti comporti bene, ti faccio portar via dallo Spione.
A Vignanello, e da quel che ne so soltanto da
noi, esiste questo strano personaggio e non soltanto nel suo nome.
Da sempre è stato lo spauracchio di generazioni di bambini, anche se
pochi anni fa se ne era quasi persa la memoria. Potremmo azzardare,
si è soliti dire, ma senza elementi certi, che potrebbe essere
considerato il corrispettivo della Befana, toh, quasi il suo marito!
Però è certo che quando girava per le case dei nostri vicoli, ora
gira di meno, ai tempi in cui io ero bambino, faceva tremare con il
suo modo di porsi i piccoli, compresi anche quelli già abbastanza
grandi che ormai non credevano più alla Befana.
N. 50 ‘Na madre è bbona pe’ cento figli,
cento figli nun so bboni pe’ ‘na madre.
Una madre può accudire ed allevare cento figli, mentre cento figli
non trovano, a volte, il tempo e l’amore per accudire adeguatamente ad
una mamma quando lei non è più autosufficiente.
E’ purtroppo una evenienza che a volte si
verifica e conferma il detto paesano.
N. 51 ‘Na bbotta e ‘na ntenta.
Una botta, nel nostro dialetto, significa un colpo dato con
qualche arnese, con una mano o con un piede; ‘na ntenta è
l’azione di intingere qualcosa in un liquido, in un intingolo o in
qualcosa di molle.
Non conoscevo questo detto e non mi viene alla
mente alcun paragone valido per renderlo comprensibile. Forse
potrebbe andar bene: compiere delle azioni molto, molto in fretta.
N. 52 Dagli che te ridagli, doppo ‘e cipolle
vengono ll’agli
Continuando sempre a compiere la stessa azione, di poco cambia il
risultato ottenuto, come non c’è quasi alcuna differenza tra le cipolle
e gli agli.
Il detto viene spesso usato per definire una
situazione continuamente ripetitiva, sia nel parlare che nel
compiere un gesto o un certo lavoro.
N. 53 Fioriranno ‘ste szucche ?
Fioriranno queste zucche ?
E’ una domanda come tante altre che ci poniamo
quando è ormai da tempo che ci troviamo impelagati in un’impresa dal
risultato che è lontano a venire e per giunta anche molto incerto.
Allora, nell’incertezza, magari ci diciamo: “Se son rose…
fioriranno”.
N. 54 I bbroccoli e i predicatori, doppo
Pasqua ‘n so più bboni.
I broccoli, passata la Pasqua, non sono più buoni da mangiare perché
fioriscono, mentre anche i predicatori dopo le celebrazioni e le
prediche fatte durante la Settimana Santa, hanno esaurito il loro
compito primario, almeno per qualche tempo.
In altre parole e senza scomodare tanti
paragoni potremmo dire: ogni cosa a suo tempo.
N. 55 Que’ ce vonno dà ad intenne che Cristo
è morto de freddo.
Questi vogliono darci ad intendere che Gesù Cristo è morto di
freddo.
Tale espressione viene declamata da qualcuno al
quale si vuol dare a bere qualche notizia o affermazione spacciata
per oro colato o per una verità inconfutabile, quando è notorio
l’esatto contrario.
N. 56 Que’ è ‘a fora ‘e i’ zzio, quanno nun
c’è esso ce so io.
Questa è la campagna di mio zio, quando non c’è lui, comando io.
E’ l’affermazione di un nipote un po’ spaccone
che si sostituisce al padrone, anche se è suo zio, che forse è anche
un po’ tollerante nei confronti delle sue smargiassate, però, in
quanto a lasciarlo dichiararsi padrone, penso che ce ne corra un bel
po’.
N. 57 Meglio que’ che un cagge d’ ‘e palle.
E’ un uomo che parla, ed è tutto dire: ricevere un calcio in mezzo
alle gambe.
E’ evidentemente una esagerazione, perché ciò
che è accaduto a chi parla, pure se sarà brutta cosa, forse non sarà
tanto dolorosa, almeno dal punto di vista fisico, tanto da essere
messa a confronto alla prima affermazione.
N. 58 Roma, che è Roma, l’hanno fatta un
sasso pe’ vorda.
Roma che è quella che tutti ben conosciamo, è nata dal nulla un po’
alla volta.
Roma che è Roma, come a dire che è una “cosa
grande”, in tutti i sensi, è stata costruita, è diventata famosa ed
importante con il passare del tempo, poco alla volta, quasi mattone
dopo mattone. Una persona del nostro paese, che ho ben conosciuto,
quando parlava della proprietà che si era fatta, quasi dal nulla,
soleva dire: “l’ho fatta mollichèlla a mollichèlla”.
N. 59 ‘A predica più bella è dà i’ bbon
esempio.
La predica più bella che si possa fare agli altri, è quella di dar
loro il nostro buon esempio con il nostro modo di agire, piuttosto che
con i bei discorsi.
Molto spesso in tutti i campi, quelli che
tengono bei discorsi, sono quelli che predicano bene ma razzolano
male, smentendo così quanto sono andati predicando.
N. 60 Poretto me che son chjamato lupo, l’addri
fanno i ddanni e io li pago.
Povero me che ho una brutta nomina, poiché mi vengono attribuite
anche le malefatte degli altri.
E’ semplice e spesso vero il messaggio del
detto: a chi ha una brutta fama, si attribuiscono spesso anche colpe
non sue.
N. 61 Jèra i’ ttempo che se roncheno ‘e fae
/ e Biacio vette fo’ da ‘a soa / co’ ‘na pagnotta ‘e pane sott’i raccio./
Ma l’acqua lo ‘cchjappette llà pe’ strae ‘e fo’/ e se vétte a riparà
rendo ‘na ‘rotte./ I ttroni, i llampi, i ffurmini e ‘e saette / e nu
rillo rendo a ‘rotte glié caette./ Subbito da ‘a ciccia Biacio penzette./
‘Nu zzeppo pizzutette,/ i’ ffoco ‘ppiccette, /i’ ppane spacchette,/ i’
rillo cocette / e po’ lo magnette / ma glié se rimmicitette./ Poro
Biacio comme ce rimanette!
La traduzione è d’obbligo.
Era il tempo in cui si andava in campagna a strappare dal terreno le
piantine di fave perché ormai erano mature / e Biagio andò nella sua
campagna / con una pagnotta di pane sotto il braccio. / Ma la pioggia lo
colse per la strada di campagna / e si andò a riparare dentro una
grotta. / Che tuoni, che lampi, che fulmini, che saette! / Mentre stava
lì, gli cadde giù nella grotta un ghiro. / Subito alla carne da mangiare
Biagio pensò. / Prese un bastone e gli fece la punta col coltello, /
accese il fuoco, / spaccò la pagnotta di pane, / infilò il ghiro con il
bastone appuntito, si mise a cuocerlo, quando gli parve cotto si accinse
a mangiarlo / ma il ghiro gli si resuscitò. / Povero Biagio come ci
rimase male!
Più che un detto, questa di Biacio, è
una filastrocca un po’ buffa ed alquanto irreale, ma la abbiamo
inserita più che altro perché ci propone un dialetto vignanellese di
tempi molto lontani, un modo di esprimersi dei nostri antenati, ora
del tutto scomparso e sconosciuto pressoché a tutti i Vignanellesi,
anche ai più incalliti e anziani popolani.
N. 62 ‘A mmèrda, più la rimanèggi e più
puzze.
Gli escrementi e, per estensione, tutte le cose dette, fatte e di
cattivo gusto, più vengono movimentate e più se ne parla e peggio è. Più
ci si scava dentro, più peggiorano ed emanano pessimo odore e cattivi
sentimenti.
N. 63 Maria Madalena, com’è grossa la mia
pena!
Maria Maddalena, tu nemmeno ti rendi conto di quanto sia grande la
sofferenza che ho nel mio cuore!
Evidentemente chi parla ha una preoccupazione
talmente grande che non riesce nemmeno a parlarne esternandola
persino a chi le sta vicino , in tutti i sensi.
N. 64 Sa’ ‘cazzo tu du dorme ‘l lepre.
Tu non sai, nemmeno lontanamente dove la lepre dorme ed ha la
cuccia.
La lepre non c’entra affatto, è soltanto un
modo come un altro per dire a qualcuno, un po’ sprovveduto ed
ingenuo, che non conosce minimamente come vanno le cose nel mondo o
come ci si comporta in certe circostanze particolari.
N. 65 Chi ‘a gente vole caccià, piglie ‘a
scopa e se mette a scopà.
Chi si vuol liberare di qualcuno che sta in casa sua, si mette a
scopare il pavimento.
Secondo un certo modo di pensare paesano,
sembra che quando si sta in casa di qualche persona alla quale la
nostra presenza non è gradita, quella prende la scopa e si mette a
spazzare il pavimento, per significare all’intruso che ha ben altro
da fare che starlo a sentire.
N. 66 Si nun te levi, te scinico comme un
fiasco.
Se non ti togli dai piedi, ti spezzo come accade quando si rompe un
fiasco con tutto il suo rivestimento di paglia.
E’ un modo un po’ insolito per invitare
qualcuno a togliersi dai piedi, altrimenti ciò che gli può capitare
potrebbe essere una brutta disavventura. Il verbo “scinicare“, nel
dialetto vignanellese significa rompere, spezzare in piccole parti
un pezzo di legno o altro materiale molto fragile.
N. 67 Chi ci ha tanti quatrini sempre conta,
chi ci ha la moglie bella sempre canta.
Chi è molto ricco pensa sempre ai suoi averi e sta sempre a
contarli, chi ha la moglie bella, pensando a lei, è sempre allegro e
canta.
E’ finalmente un detto che mette in campo due
termini di paragone, questa volta, entrambi positivi ed allegri: il
ricco che gode e vive per i suoi denari ed un marito felice di avere
una bella moglie.
N. 68 Si’ comme ‘a castagna, bella de fora,
drento co’ ‘a magagna.
Sei come una castagna, bella all’esterno ma guasta all’interno.
Potremmo, senza tanti giri di parole,
paragonare il detto ad un altro paio, diversi nelle parole ma
contenenti lo stesso messaggio e conosciuti da tutti, “Spesso
l’apparenza inganna” ed un altro che ci dice “L’abito non fa il
monaco”.
N. 69 Trenta dì, ventotto miglia, gran
coglion chi se la piglia.
In trenta giorni, chi parla, ha percorso ventotto miglia:
Non è un gran tragitto, ma lui non se la prende
affatto per lo scarso suo camminare, anzi, tira a campare contento.
N. 70 Tribbolemo comme l’eneli.
Soffriamo come gli enéli, o, come io li conosco in
dialetto vignanellese, gli enici. Comunque entrambi indicavano le
uova dei pidocchi: le lendini.
Questi parassiti del cuoio capelluto, ora quasi
del tutto scomparsi, anni fa al tempo in cui nacquero tanti
proverbi, dei quali ci dilettiamo, erano molto diffusi. Davano molto
prurito e chi sfortunatamente li aveva come ospiti sulla testa,
soffrendone, non li lasciava mai in pace, né di giorno né di notte,
grattandosi in continuazione. Le mamme e le nonne, pettinavano le
loro povere creature con il cosiddetto, ed immancabile in tutte le
case, pettine fitto, poiché aveva i denti molto sottili e
vicinissimi che riuscivano a staccare dai capelli molte lendini.
Queste erano dei piccoli ovuli, poco più che microscopici tuttavia
ben visibili anche ad occhio nudo da persona esperta ed attenta come
una mamma. Dove il pettine non arrivava, entravano in azione, ancora
le genitrici, che andavano a lungo spidocchiando la testa dei
piccoli, spiaccicando tra le unghie dei loro due pollici le
minuscole uova, appunto l’enéli o l’énici o, più
propriamente, le lèndini, che naturalmente di questa caccia
spietata ne erano l’oggetto e ne soffrivano.
N. 71 Che t’ha leccato ‘a vacca éh!
Forse ti ha leccato i capelli una vacca con la sua larga lingua?
Tanti anni fa gli uomini si pettinavano “alla
Mascagna”, moda probabilmente lanciata dal musicista Pietro
Mascagni. Tale pettinatura consisteva nel tenere i capelli
abbastanza lunghi, ravviati all’indietro e tenuti aderenti, quasi
appiccicati alla testa, con l’aiuto di brillantina o altre sostanze.
Pertanto le teste degli uomini e dei giovani, alla moda, erano lisce
e lucide proprio come se fossero state letteralmente leccate dalla
lingua larga ed umida di una mucca. Però a volte il detto era usato
anche per apostrofare, scherzosamente, qualcuno che si presentava
con tutta la sua persona perfettamente a puntino, con una precisione
eccessiva e troppo ricercata.
N. 72 Una prece, fu Lucchesi.
Una preghiera. Lucchesi è morto.
Pare che il “fu Lucchesi”, sia
un’esternazione che fece il nostro ben amato don Luigi Calvanelli,
quando morì Giacinto Lucchesi, il nostro ultimo campanaro. Egli
sapeva fare con le campane, veramente, tutte le cantate, o
meglio , tanto per restare in tema: tutte le sonate: a festa, a
gloria, a distesa, a martello, l’angonia, a morto, a portà su i’
mmorto, l’Ave Mmaria, l’ora ‘e notte, a bongiorno, a vint’ora, a
mezzogiorno, ‘a campanella ‘e a scola, l’elevazione, ‘a campanella
‘e ‘a novena ‘e Natale, ‘a campanella ‘e i’ triduo ‘e i mmorti, ‘a
campanella ‘e ‘a drottinella ed altre sonate che ora non
ricordo. Era insomma lui che, nel bene e nel male, informava e
regolava la vita del paese col suo suonar le campane. Era quindi una
persona importante. Pur tuttavia quando andò tra i più, sulla sua
carta ‘e i’ mmorto, come si chiamava allora il manifesto
funebre, c’era scritto, come ancora oggi, “UNA PRECE”. Un modo che
inequivocabilmente vuole significare a chi resta, che: La vita
continua.
N. 73 Se so’ vennuti pure i’ ccibborio.
Si sono venduto pure il ciborio.
Tale espressione era riferita a persone che
godendo e sperperando, avevano venduto tutti i loro averi, financo
le cose più care e quasi sacre, come lo è, per i fedeli osservanti e
praticanti, il ciborio che contiene le ostie consacrate.
N. 74 Stavorda ‘emo fatto carambola e
piroli.
Questa volta abbiamo proprio fatto carambola e birilli.
Questa è un’espressione che nel gergo del gioco
a bigliardo significa: aver ottenuto il massimo risultato o
punteggio con un solo tiro, avendo colpito il pallino(facendo
carambola) ed avendo abbattuto tutti i birilli (filotto e piroli).
Però, mentre nel gioco significa una eventualità molto positiva e
bella, nel nostro caso, viene adoperato nel senso contrario, per
significare di aver ottenuto, con un comportamento sbagliato o in un
lavoro o negli affari, il peggior risultato ottenibile ed
auspicabile: quasi un fallimento.
N. 75 Pasquarella Epifania, tutte ‘e feste
porte via; risponne Sammiacio e Santa Maria, piano, piano, ecco ‘a mia!
Un detto nazionale dice soltanto: L’Epifania tutte le feste si porta
via. Ma noi, fedeli a San Biagio ed alla Madonna, ci abbiamo aggiunto il
resto.
N. 76 Pozzi fa’ l’urdima
Possa essere la tua ultima… (ora o l’ultima tua malefatta prima
della fine).
Non è un buon augurio, molto chiaramente,
indirizzato ad un tale che, evidentemente, non gode di buona fama,
ma si accinge tuttavia a compiere una delle “sue”.
N. 77 Paro, paro: dispero in mano.
Pari, pari: dispari in mano
Questo detto è un altro tra quelli che, quando
capita una certa situazione nel giocare a carte, cade a proposito.
Veniva pronunciato quando una “mano”, nel gioco “a scopa”, era quasi
giunta al termine ed ogni giocatore doveva mettere in tavola le sue
ultime tre carte. Quello che lo pronunciava era il giocatore più
esperto e perciò in grado di sapere, tramite dei calcoli fatti
ricordando tutte le carte già giocate, quali carte aveva il suo
avversario in mano. Di solito non si sbagliava, quindi aveva quasi
tutte le possibilità di avere partita vinta. Era come dire al
termine della partita: ormai il gioco è fatto. Per estensione, si
dice anche quando la conclusione di una certa situazione , bella o
brutta, è sotto gli occhi di tutti, in maniera abbastanza evidente.
N. 78 Ma un cristiano, nun po’ esse’ padrone
de pulisse i’ cculo co’ ‘na rivorverata éh?
Ma è possibile che una persona non possa essere padrona di agire o
di fare a modo suo, come compiere un gesto molto privato e personale,
nel modo che egli ritiene più giusto, anche se inusuale?
Era questa l’espressione, papale papale,
di un cliente del Caffè Rocchjetto, quando giocando a carte,
faceva certe giocate che non erano condivise da alcuni
clienti-spettatori che stavano alle sue spalle e che pertanto lo
criticavano, volendogli significare che aveva sbagliato. In sostanza
rivendicava a sé, solo e soltanto, anche se in un modo abbastanza
inusuale e colorito, il modo di gestire la partita e di giocare le
carte che aveva in mano: Ognuno è padrone delle sue azioni.
N. 79 Tu la sa’ lunga ma nu la sa’ riccontà.
Tu hai un bel modo di dire le cose, hai una bella parlantina, ma non
mi convinci.
E’ l’espressione di qualcuno che ha mangiato
la foglia , come si suol dire da noi, per cui chi vuol
convincerlo in qualche modo a dargli retta, pur argomentando bene,
non è credibile.
N. 80 L’ha fatte più quello che Carlo in
Francia.
Ha avuto più esperienze di vita quella persona che re Carlo in
Francia.
Il riferimento è a Carlo Magno (742-814). E’ un
modo come un altro per dire che la persona a cui è indirizzato il
detto, ne ha combinate di tutti i colori: di normali, di belle, ma,
sicuramente di più, anche di brutte.
N. 81 Giri più tu che i ccani ‘e i
mmacellari.
Giri più tu dei cani che fanno il giro delle macellerie per
racimolare qualche osso da rosicchiare.
E’ sicuramente una espressione di non molta
stima riferita ad una persona che sta sempre in giro in cerca di
esperienze ed avventure sempre diverse.
N. 82 E’ tutto un Cristo e un Padernostro.
Stiamo parlando dello stesso Cristo e dello stesso Padre Nostro.
Chi lo dice vuol significare al suo
interlocutore che si sta sforzando da tempo a proporgli o dirgli
qualcosa come se fosse una novità, invece è tale e quale a ciò che
gli aveva già detto o proposto molte altre volte, anche se con altre
parole o motivazioni.
N. 83 So’ tutto ‘ntuso comme u’ mmago ‘e
mella.
Sono tutto contuso come una mela che è stata sbattuta di qua e di
là.
E’ lo sfogo, un po’ colorito, di qualcuno che,
per un lavoro o altro impegno che lo ha impegnato intensamente, si
sente, e non solo fisicamente, stanco, spossato e malridotto,
proprio come una mela contusa ed ammaccata in più parti.
N. 84 Te do nu stiaffo e te faccio diventà
comme Simone.
Ti do uno schiaffo da farti diventare come Simone.
E’ certamente una espressione non proprio
gentile e bene augurante, per far capire a qualcuno un po’
fastidioso, che se non la smette di disturbare, gli verrà dato un
ceffone talmente forte da farlo diventare come un uomo che era, un
po’ bonariamente, lo zimbello degli altri.
N. 85 Quello è secco comme nu chjù.
Quell’uomo è magro come un chjù.
Chjù è il nome con il quale a Vignanello si è
soliti chiamare l’assiolo, un uccello rapace notturno, molto simile
alla civetta, che vive nelle nostre campagne. Pur non essendo una
preda prelibata dal punto di vista gastronomico, anni fa alcuni
bracconieri gli davano la caccia. Proprio a detta di questi, destava
meraviglia la sua magrezza, una volta messo nel tegame per la
cottura, più che altro se confrontata con il suo aspetto da vivo,
poiché, tutto ben ricoperto da penne e piume molto vaporose,
appariva molto più grande.
N. 86 Ma va’ a sole d’i pprato ‘a Valle!
Ma vai a prendere il sole giù alla Valle!
Lo si diceva a qualche persona che importunava
il prossimo in continuazione e, quando non se ne poteva più, la si
invitava senza tanti complimenti a recarsi alla ben nota, per noi
Vignanellesi, Valle, a prendere il sole, l’equivalente del più
classico: vai a quel paese.
N. 87 Chi magne magne, ma ‘e beute hanno da
esse’ pare.
Se qualcuno mangia più degli altri, poco importa, ma le bevute, di
vino, debbono essere pari.
Il detto veniva ben scandito da qualcuno degli
amici di merende, prima di iniziare, quando si andava a
fare le cantinate tra compagni. Il senso è chiaro: in cantina
più che il mangiare, era più ambìto il vino perché era quello più
prezioso, prodotto per essere, almeno la maggior parte, venduto per
il sostentamento delle famiglie. Per cui: patti chiari! Non ci
doveva essere nessuno che ne bevesse più degli altri.
N. 88 Stemio fitti comme i ccapelli d’i’
ccapo.
Stavamo stretti, vicini ed assiepati come lo sono i capelli sulla testa.
Chi parla nel detto, fa riferimento ad una
situazione in cui si è trovato insieme a tante altre persone e c’era
un tale affollamento ed una ressa, che si stava gli uni a contatto
con gli altri proprio come stanno vicini i capelli sulla testa di
una persona.
N. 89 Quanno vène ‘a sera, ‘gni carogna
piglie vela.
Quando sta per concludersi una giornata, anche il più fiacco
lavoratore acquista più lena e dà il meglio di sé.
Il detto fa riferimento, come tanti altri, ai
lavori di un tempo e che si facevano in campagna, tutti a mano.
Mette in evidenza l’attitudine o l’abitudine di qualcuno che pur non
essendo un gran lavoratore, riusciva a dare il meglio di sé proprio
quando ormai la giornata era al termine e avvicinandosi il momento
di andare a casa, dava fondo alle sue residue energie e concludeva
in bellezza la giornata con un ritmo che nelle ore precedenti non
aveva mai tenuto.
N. 90 Co’ ‘a pizza ‘e pulente, ce ‘mmollemo
pure i’ ppane.
Insieme alla pizza di polenta, mettiamo in ammollo anche il pane.
Anni fa un pasto molto in voga e molto comune
era ‘a zsuppa, cioè il pane o altro alimento simile, come la
pizza di polenta, inzuppato in acqua, vino, brodo, minestra o legumi
lessati. Spesso il pane o altri alimenti diventavano duri ed allora
pur di non “sprecarli”, si mangiavano dopo averli tenuti un
po’ in ammollo. Specialmente dopo una settimana dalla giornata di
cottura, soprattutto in estate, spesso il pane diventava duro ed
immangiabile ai più della famiglia. Allora la mamma programmava, ma
non sempre soltanto come ripiego forzato, anche a seconda della
stagione, per un pasto: ‘a panzanèlla, l’acqua cotta, i’
ppansanto, i’ ppane mollo da i ffacioli, i’ ppane mollo co’ i’
merluzzo , i’ ppane ‘mmollato da i’ bbrodo fatto co’ ‘na merla
‘mmazzata a caccia.
Tutti piatti che riscuotevano molti consensi ed
erano particolarmente ben accetti ai più anziani, i quali spesso avevano
numerosissime assenze nelle loro arcate dentarie.
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Ed anche per quest’anno abbiamo finito con i
commenti e le traduzioni delle nostre parole dialettali più astruse e
ormai fuori dal linguaggio di tutti i giorni della maggior parte di
tutti noi che, nonostante tutto ancora ci sentiamo Vignanellesi. Spero
soltanto di non essere stato un po’ troppo prolisso e di essere stato
abbastanza chiaro e comprensibile.
Arrivederci al prossimo 26 Dicembre.
Lillo
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