Sotto a ‘sta punta La raccolta delle nocciole com’era fino a cinquant’anni fa di Lillo Pacelli
Fino agli anni ‘50 ed al termine dei ‘60, ai primi di agosto si cominciava a parlare di nocciole o, per essere più precisi di nocchje. Tutti i Vignanellesi, grandi e piccoli, uomini e donne, ricchi e poveri, contadini e artigiani, operai, impiegati e commercianti, possidenti e nullatenenti, per un verso o per l’altro, erano coinvolti in questa fase di lavori agricoli. Sarebbe troppo lungo passare in rassegna i vari aspetti che interessavano ciascuna delle categorie del tessuto sociale di Vignanello che abbiamo appena elencato, pertanto ci limiteremo a descrivere soltanto ciò che accadeva nelle campagne e nelle abitazioni delle persone che erano impegnate nella raccolta delle nocciole, così come veniva praticata, vale a dire in modo totalmente diverso da quello attuale. Dicendo “alcuni anni fa”, ci riferiamo, più o meno, a quelli verso gli ultimi ‘60, ma possiamo affermare che anche se andassimo molto più indietro, le cose si sarebbero svolte nella stessa maniera, da secoli. Oltre ai contadini, i primi ad accorgersi che le nocchje erano fatte, cioè erano pronte per essere raccolte, erano i ragazzi che, quando ai primi di agosto le giornate erano molto calde, andavano a fare il bagno nel paratone che loro stessi si costruivano, lungo il corso dei fossi Zangola e Puliano, allora ancora puliti, potabili e fruibili per un rinfrescante e salutare bagno. Pur rischiando di andare fuori argomento, ma ormai conoscete il vizio della bestia che scrive, per un momento dobbiamo dare qualche chiarimento. Il paratone era uno sbarramento artificiale del letto del ruscello, una specie di diga, che un gruppo di ragazzi si costruiva con sassi, rami, piante erbacee sradicate con tutte le radici e la zolla di terra che queste si portavano dietro (‘e pellicce) e con tutto ciò che potesse servire ad arginare ed impedire il normale scorrere dell’acqua. Completato lo sbarramento, che a volte richiedeva più di un pomeriggio di lavoro, si veniva a formare un invaso artificiale, più o meno lungo, largo e profondo, a seconda delle capacità natatorie dei costruttori. Questo specchio d’acqua che accoglieva i ragazzi nei caldi pomeriggi estivi, era: la piscina, il fiume, il lago, il mare, tutti luoghi che soltanto qualcuno dei “bagnanti paesani” aveva forse visto casualmente qualche volta. E’ quasi superfluo, ma doveroso precisare che i paratoni erano frequentati solo dai maschi: il bagno si faceva, tutti, in costume adamitico. Ma dicevamo dei ragazzi che andavano a fare il bagno: quando vedevano che le nocchje erano ‘arrivate’ , cioè giunte a maturazione, in qualche noccioleto vicino al paratone, ne raccoglievano un po’, alcuni chili, strappandole dai rami con tutta la buccia che le riveste quando sono fresche. Scavavano nel terreno, in qualche angoletto un po’ appartato e nascosto, ognuno la sua, una profonda buca che potesse contenerle tutte, ce le mettevano dentro pressandole ben bene e le ricoprivano accuratamente mimetizzando con erba, foglie e ramoscelli l’apertura della buca scavata. Questo piccolo tesoro nascosto era chiamato dai ragazzi ‘a ripostina. Le nocciole trafugate restavano lì, vedremo più avanti fino a quando. Ora torniamo a parlare della raccolta. C’è ancora però da dire che in quegli anni le nocciole erano piantate quasi soltanto nei fondovalle lungo i fossi Zangola, Puliano, Maregnano, Sudano, Cigliano, Lavatore, Fontana Antica ed in altre zone in cui non era conveniente e comodo per la lavorazione impiantare vigneti, quindi in terreni con notevole pendenza o molto in basso nelle vallate e più soggetti alle gelate primaverili. Queste zone erano chiamate, in dialetto, con nomi come. ‘e coste, i ffonni, ‘e fonnate, i scarapicchj. Verso il 10 o al massimo il 15, il giorno della Madonna ‘i mmezzo agosto, iniziava la raccolta. Nei giorni precedenti si preparavano le balle di iuta, o nuove o quelle vecchie dopo un accurato controllo e, se era necessario, si mettevano le toppe a quelle che durante l’inverno avevano ricevuto la visita dei sorci, si preparavano i teli di stoffa per ricavarne i zinali e si comperavano delle matassine di corda per allacciare questi ultimi intorno alla vita. Questi contenitori, i zinali, erano costituiti da un pezzo di stoffa rettangolare, simile ad un asciugamano, al quale si legavano ben stretti, ai due angoli di uno dei due lati più corti, due pezzi di corda abbastanza resistente della lunghezza di circa un metro, definiti in dialetto i ccaettoni (in italiano si potrebbe tradurre come grossi cavetti: una corda un po’ robusta) che erano in vendita in gomitoli o in matassine della lunghezza di una decina di metri. Le due cordicelle fissate ai due angoli del sinale, si passavano intorno alla vita e si legavano sul davanti, all’altezza dell’ombelico, con un doppio nodo; si prendevano poi i due angoli liberi del sinale e si legavano ben stretti con le due cordicelle rimaste libere, vicino al doppio nodo. Si veniva così a formare un ampio contenitore abbastanza capiente che, una volta riempito, era una bella sinalata ‘e nocchje, che si vuotava nella balla. Al mattino l’intera famiglia saltava dal letto (si fa per dire) quando era ancora buio e mancava un bel po’ al sorgere del sole. La mamma doveva svegliare, vestire e accudire i figli più piccoli (venivano portati in campagna anch’essi), preparare la colazione e il pranzo , da portare al seguito per tutta la famiglia e dare una sistematina alla svelta ai letti ed al resto della casa. Il babbo andava alla stalla, governava il maiale e, se ce n’erano, i polli e i conigli; metteva il basto al somaro oppure attaccava l’animale al carretto, vi caricava le balle vuote e si avviava verso una fontana pubblica per riempire qualche barlozzo di acqua. Passava infine in cantina per attingere anche qui un altro barlozzetto di vino fresco ed attendeva l’arrivo della sua “truppa”. Quando albeggiava, tutti erano pronti per andare. La giornata lavorativa cominciava quindi molto presto e si concludeva quasi al tramonto. Non si consultava l’orologio, anche perché erano pochi a possederlo e chi ce l’aveva lo teneva ben nascosto nel comò, pronto per essere sfoggiato in qualche festa o nelle grandi occasioni. Per sapere quando era ora di fare colazione, di pranzare o di smettere di lavorare, bastava guardare il sole: i più anziani ed attenti, a volte, potevano sbagliare al massimo di cinque minuti, ma poco importava, non si doveva prendere un treno. I pasti erano sempre piuttosto frugali. Molto spesso venivano consumati in compagnia dei confinanti e, quando c’erano, all’ombra di qualche grande quercia o castagno o, meglio, lungo le rive ombreggiate e fresche dei fossi. Questi ultimi avevano ancora tutti l’acqua limpida, abbondante e potabile; tutti la bevevano e non è successo mai niente a nessuno; in essa si metteva a mollo il pane per preparare ’a panzanella, si riempivano le palme delle mani per bere e, già dalle prime ore del mattino, sguazzavano i bambini, naturalmente un po’ più a valle del sito scelto per consumare i pasti. La raccolta de ‘e nocchje co’ tutta ‘a coccia che le racchiudeva, veniva fatta strappando dai rami i frutti ancora freschi. Le donne, i ragazzi, e gli anziani, in piedi intorno alla pianta, mettevano nei sinali i frutti che staccavano dai rami fino all’altezza delle braccia alzate (scusate il bisticcio di parole); i giovanotti, più agili, coglievano le nocciole arrampicandosi sulle scale di legno appoggiate ai grandi rami, che, essendo troppo rigidi ed alti, non era possibile piegare fino a terra; gli uomini più alti, aiutandosi con un grosso uncino di legno, ricavato di solito da qualche ramo che si era spezzato in precedenza, agganciavano alla cima i rami più giovani e flessibili ma troppo alti e li piegavano verso terra fino ad altezza d’uomo. Nel compiere questa azione, contemporaneamente gridavano: “Forza un po’!... Sotto a ‘sta puntaaaaaa…!” Era l’invito a tutti gli altri raccoglitori a farsi sotto per cogliere tutte le nocciole, prima che il ramo venisse sganciato dall’uncino lasciandolo libero verso l’alto per tornare a riprendere la sua posizione originaria. Per far si che le nocciole venissero raccolte da tutta la pianta, questa veniva presa a giro, cioè compiendo un giro completo intorno ad essa e si coglievano tutti i rami, uno alla volta, prima di passare ad un’altra pianta. I frutti cresciuti anche nei punti più nascosti e riuniti in panocchje, da uno, due, tre e più nocciole (vaga), venivano cercati stringendo e facendo strisciare tra ambedue le mani i ramoscelli ad uno ad uno, fino a trovare a tasto fino all’ultimo vago. Tuttavia alcune nocciole sfuggivano sempre ai raccoglitori, anche ai più abili ed attenti e sarebbero state, di lì a qualche giorno, preda dei buscaroli, come vedremo più avanti. Cogliere le nocciole dalle piante era un lavoro che a molti, soprattutto donne, non piaceva per vari motivi. Al mattino, appena si iniziava, le foglie erano grondanti di guazza, per cui ci si bagnava da sopra; il terreno, spesso coperto di erba alta, era anch’esso grondante e perciò ci si bagnava anche da sotto. Quando dopo la colazione si riprendeva il lavoro, la guazza non c’era più, c’era però il sole che picchiava e si cominciava a sudare. Dai rami e dai ramoscelli che venivano abbassati e strisciati ad uno ad uno tra le mani, si distaccavano pezzetti di foglie verdi e secche, piccoli fuscelli, pezzettini di muschio, polvere in quantità; il tutto finiva tra i capelli, negli occhi, nella bocca, sulla pelle, umida di sudore, della schiena e del petto, causando un certo fastidio e molto prurito. C’è ancora da aggiungere che dai rami scossi e piegati fino a terra, cadevano addosso ai raccoglitori diversi animaletti: formiche (‘e formicole pizzicarelle), cimici maleodoranti (‘e puzzole), coccinelle (‘e madonnelle), piccole cavallette verdi (i zsardapicchj), mantidi religiose (‘e morti), ragni di varie forme e dimensioni, per non parlare infine di verdi lucertoline. Bisognava stare tutto il giorno in piedi e con le braccia rivolte verso l’alto sia per trattenere i rami piegati a terra, che per strappare le nocciole; da ultimo, quando se ne erano raccolte abbastanza e il sinale era pieno, il suo peso gravava sui fianchi ai quali le corde lo tenevano legato. Da quanto ho detto finora, non si deve però dedurre che ‘nnà a coglie ‘e nocchje fosse un supplizio, anzi, c’erano molti aspetti positivi. Si lavorava riunendosi in gruppi di famiglie o di amici. In molti facevano a cagnà, cioè si aiutavano a vicenda nel raccogliere il prodotto, andando alternativamente una volta nel podere di uno e una volta in quello dell’altro. I gruppi perciò erano molto variegati sia riguardo al sesso che all’età. C’erano poi le squadre di operai che andavano a giornata, co i’ Principe, co Pisella, co i’ Caterinone e con altri proprietari di grandi noccioleti. Più il gruppo era numeroso e più la giornata trascorreva rapidamente e si sentiva di meno la fatica. C’era chi raccontava barzellette, chi rievocava fatti tragici o buffi avvenuti in passato, chi faceva scherzi e chi ascoltava soltanto e si divertiva con ciò che altri dicevano o facevano. Una cosa però accomunava tutti e rendeva tutti partecipi: le canzoni eseguite in coro e , quando andava bene, in coro a più voci. Queste consistevano, il più delle volte , in una lunga sequenza di strofe, intercalate dal ritornello, che rievocavano in versi, episodi avvenuti chissà quando e dove, molto spesso tragici, che tenevano impegnati per molto tempo nel canto, ciascuno per la sua parte, tutti i componenti del gruppo. C’era chi alzava, cioè cominciava la strofa e faceva l’a solo, chi faceva il controcanto, chi, la maggior parte, faceva il coro e cantava soltanto il ritornello e chi, stonato come una campana, veniva guardato brutto dal conduttore del coro ed era invitato spesso dai coristi, ma inutilmente, a stare zitto per non rovinare con le sue note, l’armonia del coro. Da un versante all’altro delle fonnate e delle coste, si ingaggiava a volte una vera e propria gara a distanza, tra squadre di nocchiaroli, a chi cantava meglio o conosceva le canzoni e le storie più belle o sapeva improvvisare gli stornelli più spiritosi, maliziosi ed anche un po’ spinti. Gli unici che quasi mai o raramente prendevano parte ai cori, perché in tutt’altre faccende affaccendati. erano i padroni e i loro delegati, i cosiddetti coticari. Questi, padroni e coticari, sorvegliavano il lavoro degli operai; legavano all’imboccatura le balle di nocciole piene; tenevano sotto controllo, a vista, quelle riempite durante la giornata che stavano sparpagliate per tutto il noccioleto; dicevano quando era ora di andare a mangiare, di tornare a lavorare o di smettere; passavano ogni tanto tra gli operai con i barlozzi ‘e vino per far fare una bevuta ristoratrice e corroborante; vigilavano intorno ai confini del loro terreno affinché non si avvicinassero o vi entrassero prima del tempo i gruppi di buscaroli. Già, non abbiamo ancora detto nulla dei buscaroli. Erano uomini, donne, ragazzi e ragazze e talvolta anche bambini intorno ai sette-otto anni che, o avendo già terminato la raccolta nei loro terreni o non possedendone alcuno, andavano nei terreni altrui in cui la raccolta era terminata, alla ricerca delle nocciole che erano sfuggite ai raccoglitori. Questa ricerca dei frutti rimasti sulla pianta o in terra era detta ’a busca, da cui il nome di chi la praticava. Alcuni avevano il permesso di buscare, proprio dai proprietari dei noccioleti ed altri ci andavano senza autorizzazione, ma erano bonariamente tollerati. Sia agli uni che agli altri però, era consentito buscare tenendosi a debita distanza dalle piante che ancora non erano state colte, altrimenti venivano fatti allontanare. Tutti i buscaroli erano equipaggiati con tascapane, sinale ed uncino. Quest’ultimo consisteva in una canna della lunghezza di un paio di metri, alla quale sulla punta era applicato un piccolo uncino di filo metallico che serviva per agganciare, staccare e far cadere a terra le nocciole che erano state lasciate nella parte più alta dei rami. Ricordate ancora i ragazzi che quando erano andati a fare il bagno al paratone avevano nascosto sotto terra ognuno la sua ripostina? Ebbene, era giunto il momento di andare a dissotterrarla. Tenevano d’occhio il terreno nel quale l’avevano scavata e, quando il proprietario aveva terminato la raccolta, entravano in azione. Facendo finta di andare a buscare nei dintorni, presto presto portavano alla luce il malloppo, lontani da sguardi indiscreti, sbrocchjavano le nocciole, cioè toglievano ad esse la buccia esterna e in poco tempo riempivano il sinale, tra la grande meraviglia degli altri buscaroli che nel frattempo avevano racimolato soltanto poche vaga ‘e nocchje. Non era raro però che la ripostina fosse stata visitata in anticipo da qualcuno che aveva visto il ragazzo mentre la sotterrava. Scattavano allora le indagini del legittimo proprietario per scoprire chi era stato il vile profanatore, ma il più delle volte il risultato era negativo: non avevano ancora tenuto lezione né Perry Mason né La Signora in giallo. La busca si protraeva fino a settembre inoltrato, quando ormai non serviva più l’uncino per staccare le nocciole dai rami, ma bastava scuoterli con forza con le braccia perché le nocchje cadessero a terra da sole. Torniamo ora al mese di agosto ed ai nostri gruppi di famiglie o di squadre di operai, che abbiamo lasciati a raccogliere le nocciole dalle piante. La giornata di lavoro si interrompeva una prima volta al mattino tra le otto e le nove, per circa mezz’ora, per la prima colazione, e più tardi, verso l’una, per il pranzo. Questa seconda interruzione era più lunga; infatti oltre al tempo necessario per consumare un pasto più abbondante e sostanzioso, c’era anche il tempo per schiacciare un pisolino, sdraiati sull’erba o sulle balle ancora vuote, all’ombra delle piante più folte. Il lavoro terminava quando il sole stava per tramontare. Gli uomini si issavano sulle spalle, aiutandosi l’un l’altro, le balle piene e le caricavano sul carretto; le donne radunavano e sistemavano nelle canestre e nelle sdigliatore (canestri più grandi muniti di due manici) tutto ciò che era servito o era avanzato dopo i pasti e, finalmente tutti a casa: chi seduto sul basto del somaro; chi attaccato alla sua coda; chi sopra il carico d balle piene sul carretto, appollaiato come i pompieri nei cartoni animati e chi , la maggior parte, a piedi. Arrivati, a volte dopo più di un’ora di cammino, a casa, le donne andavano subito a fare la spesa per la cena e per preparare i pasti per il giorno successivo; gli uomini andavano a vendere le nocciole raccolte o a portarle in cantina o al magazzino, andavano ad abbeverare in qualche fontana pubblica o fontanile l’asino e poi lo conducevano nella stalla; i ragazzi aiutavano la mamma a fare la spesa o in qualche faccenda domestica e, se ci scappava un po’ di tempo, scendevano nel vicinato a giocare un po’, i pochi anziani che erano rimasti a casa, si informavano con molto interesse sull’andamento della giornata e del raccolto. I buscaroli, infine, andavano a vendere le nocciole buscate oppure le portavano in casa e le univano a quelle racimolate nei giorni precedenti e guardavano con compiacimento salire il livello, giorno dopo giorno. Quanto abbiamo detto in questo ultimo (troppo lungo) periodo, accadeva, su per giù quando suonava la campanella dell’Ave Maria. Quando più tardi suonava la campana dell’ora ‘e notte, quasi tutti avevano finito di cenare e si preparavano, stanchi ed assonnati, ad andare a letto. C’erano ancora poche radio e della televisione solo i più emancipati sapevano che era stata inventata; non si sapeva pertanto cosa erano Telegiornale, Carosello.e non si poneva il dilemma di scegliere tra Primo , Secondo ed altri Canali e Programmi della prima e seconda serata. Non c’erano, ma penso che anche se ci fossero stati, soltanto poche persone (intendo tra i ‘nocchjaroli), sarebbero state in grado di riuscire a seguirli con gli occhi ancora aperti, dopo una giornata che era stata preceduta da tante altre ugualmente faticose e che sarebbe stata seguita da chissà quante altre ancora, comprese quelle festive, di intenso lavoro e pochissimo riposo. Le balle di nocciole fresche, cioè colte dalle piante verso la metà di agosto, avevano destinazioni diverse a seconda delle abitudini e delle esigenze dei proprietari. Alcuni, giorno per giorno, quando al tramonto tornavano dalla campagna, le scaricavano per venderle subito nei punti di raccolta dei commercianti che si servivano dei mediatori locali (i sensali). Questi intermediari, che usavano come centri di raccolta cantine e magazzini, ogni giorno fissavano il prezzo al quintale e pagavano quasi subito il prodotto conferito. Altri produttori, ogni sera, vuotavano le balle di nocciole raccolte nella giornata, al fresco delle proprie cantine ed aspettavano la fine della raccolta per decidere se venderle in un’unica partita se il prezzo era di loro gradimento, o lavorarle in proprio, cioè essiccarle al sole. Altri invece, ed erano quelli che ne producevano parecchi quintali o non avevano bisogno di “denaro fresco” per andare avanti, ancor prima della raccolta decidevano di essiccare le nocciole per venderle in un secondo momento, quando il mercato era più favorevole, realizzando così un ricavo maggiore. Questi ultimi però per mettere in atto questa soluzione, avevano bisogno di uno spazio abbastanza esteso (i’ pprato) per spandere al sole e lavorare, fino all’essiccazione, le nocciole. Dovevano approntare tutta l’attrezzatura necessaria: molte balle, rastrelli di legno, graticci e soprattutto predisporre un riparo per alloggiare gli addetti al prato, sia durante la notte che nelle eventuali giornate di tempo brutto: un casale, una grotta, una stalla o una ampia e solida capanna, a prova di pioggia, con le pareti ed il tetto costruiti a regola d’arte, con le stoppie del grano o con il fusto delle piante di granturco: ’a cappanna fatta co’ ‘i stoppolo o co’ ‘e cianche ‘i granturco. Anche il lavoro che si svolgeva nel prato meriterebbe una esauriente descrizione delle varie fasi della lavorazione, ma credo di aver già approfittato un po’ troppo a lungo della pazienza di chi ha letto questo, definiamolo, articolo. Ne riparleremo in futuro.
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