28.06.09
Spaghetti alle vongole a Salerno
di Lillo Pacelli

Era un pomeriggio freddo e piovoso, quasi buio, di fine novembre o inizio dicembre. Stavamo, io e Mario Ferri, in casa mia sulla finestra che si affaccia sulla Piazza, sul lato sinistro della facciata della Collegiata.
Avevamo appena finito di compilare la domanda di partecipazione all’esame scritto del concorso magistrale che avrebbe avuto luogo, la prova scritta, tra il 10 e il febbraio del 1959 (posso, al massimo, sbagliarmi di un giorno).
Oltre ai certificati di rito richiesti dal bando di concorso, era pronta anche la busta gialla per spedire la raccomandata. Mancava soltanto di mettere, per iscritto, il nome della provincia di destinazione. Perchè? Eravamo entrambi, freschi maestrini, al primo concorso. Avevamo pensato, nella nostra ingenuità di poco più che ragazzi (avevamo appena vent’anni), di andare a sostenere l’esame nella provincia italiana che avesse più posti liberi messi a concorso. Consultammo alcune riviste scolastiche e selezionammo fra tutte, tre province: Sassari, Brescia o Bergamo e Salerno. Per noi l’una valeva l’altra.
Facemmo tre bigliettini e sorteggiammo. Venne fuori Salerno. Seduta stante indirizzammo la domanda al Provveditorato agli Studi di quella provincia e al mattino successivo partì la raccomandata con ricevuta di ritorno, come da prassi.
Nei modi e nei tempi stabiliti ricevemmo la convocazione per la prova scritta.
Nel giorno precedente quello della detta prova, partimmo da Vignanello con la Roma-Nord col primo treno, quello delle 5.00. Arrivammo a Piazzale Flaminio intorno alle 7.10 e senza perder tempo col filobus della linea 99, giungemmo alla stazione Termini verso le 7.45. Eravamo entrambi nuovi a quella esperienza, ma ci adeguammo subito. Consultando il tabellone dei treni in partenza, vedemmo che il primo treno per Napoli-Salerno, era un “Rapido”, alle 8.14.
Ci affrettammo a fare il biglietto e dovemmo pagare il “Supplemento Rapido”, se non ricordo male, di 1.200 o 1.400 lire, in aggiunta al costo del biglietto che era di 2.800-3.000 lire. Come due viaggiatori di lungo corso, trovammo subito il binario di partenza del nostro Rapido (tra i tanti, troppi per noi che ci figuravamo tutte le stazioni con un binario, al massimo con due per le eventuali coincidenze, come la nostra) e alle 8.12 stavamo sul treno in partenza per Salerno.
Che avventura! Nuovi orizzonti: Nuovi paesaggi. Nuove coltivazioni. Nuovi modi di gestire e sfruttare il territorio. Il treno attraversava la periferia di Roma, la Campagna Romana, l’Agro Pontino, le Paludi della Bonifica e le ultime cittadine laziali, per entrare nel Casertano. Cominciava a vedersi: a destra il mare e sulla sinistra le prime propaggini del sistema montuoso campano e poi il Vesuvio e l’entroterra napoletano.
Da qui in avanti, stavamo attraversando la penisola sorrentina, il treno percorreva un continuo succedersi di viadotti e gallerie e ponti che scavalcavano vallate discendenti verso il mare o perforavano con tunnel creste rocciose o crinali di monti. Tra gli uni e gli altri, nei brevi intervalli, si poteva godere della vista, sempre sul lato destra, del mare. Si vedevano scorrere le stazioni, ma riuscimmo a stento a leggere soltanto qualche nome. Il treno era un “Rapido” e non si fermò mai, tranne che a Napoli; se no che rapido sarebbe stato? Mi meravigliò particolarmente una di queste stazioni: lungo i binari su un lato c’erano degli alberi, ma non erano come da noi querce, platani, tigli o simili; erano piante di aranci e mandarini con tutti i frutti maturi pendenti dai rami.
In questa cornice di piante di agrumi e di sole tiepido e limpido, anche se eravamo a metà Febbraio, arrivammo verso mezzogiorno a Salerno.
Avevamo vent’anni, dalla mattina alle 4.30 dovevamo mettere qualcosa sotto i denti. Ci mettemmo subito alla ricerca di un locale, ristorante, trattoria, osteria o altro, in cui mangiare qualcosa.
Al lungomare, i locali, a giudicare dalle apparenze, ci sembravano troppo signorili e di conseguenza troppo fuori dalla portata delle nostre limitate disponibilità.
Verso l’interno nel dedalo di viuzze della città vecchia e popolare, ci parevano troppo scadenti e malandati, piuttosto simili alle osterie che avevamo lasciato a Vignanello.
Girovagammo a lungo tra vicoli e strade. Verso l’una e mezza, il digiuno ebbe il sopravvento e decidemmo: «Girato il prossimo angolo, entreremo nel primo locale che ci capiterà davanti, vada come vada!». Così facemmo. Non ci andò male. Era un bel posticino e, alla fine, non si rivelò neanche tanto caro.
Ci sedemmo, ci portarono il menù e cominciò la scelta. Quanta roba! Tra primi piatti, secondi, contorni e tutto il resto, c’era solo l’imbarazzo della scelta. Ci tenemmo però con i piedi per terra, tenendo conto delle nostre disponibilità. Per primo piatto, sia in omaggio al posto di mare, sia perchè il pesce piaceva a tutti e due, ordinammo entrambi: spaghetti alle vongole, che qualche volta avevamo sentito dire, ma che nessuno di noi due aveva mai mangiato. In attesa che ci venisse portato il primo, ordinammo il secondo. Da vecchi lupi di mare quali eravamo, la scelta fu unanime: frittura mista di scoglio.
Tra il ribollire dei visceri e l’acquolina in bocca causata dall’odore e dalla vista dei piatti portati dall’unico cameriere che di tanto in tanto ci passava vicino per servire gli altri tavoli, trascorse una mezz’ora. Finalmente il cameriere puntò nella nostra direzione con due bei piatti (veramente bei!) di spaghetti fumanti con sopra un invitante cappello di succo di pomodoro e vongole. Ce li posò davanti e ci salutò con un caloroso «Buon appetito» di cui in verità non c’era proprio bisogno, tuttavia lo gradimmo, ringraziammo con parole ed un largo sorriso.
Cominciammo a girare e rimescolare la pasta perchè per noi, non marinari ma terricoli, mancava una cosa: il formaggio o cacio, che dir si voglia, da metterci sopra. Mescola e rimescola, io, anche senza formaggio, qualche forchetta ne assaggiai. Mario disse che senza formaggio la pasta non gli piaceva, perciò aspettava che, prima o poi, glielo portassero. Io ne assaggiai qualche altra forchettata e costatai che, pur mancando il formaggio, gli spaghetti non erano tanto male. Feci notare la cosa a Mario, il quale continuava a non mangiare, mentre rimescolava inutilmente gli spaghetti e i sugo, in attesa dell’arrivo del contenitore con dentro il formaggio grattugiato.
Finale: io finii il piatto di spaghetti che erano ormai quasi freddi, come pure quelli di Mario quando cominciò a mangiarli, perchè infine, pur senza cacio... “più che il formaggio poté il digiuno”. Mi perdonino Dante e il Conte Ugolino.
Verso le 14.30, uscendo dal locale per andare a cercare la sede della scuola in cui la mattina successiva avremmo dovuto sostenere la prova scritta per il concorso, dopo aver mangiato anche una ricca frittura mista di scoglio e nient’altro, dovemmo riconoscere che anche senza altri condimenti, gli spaghetti alle vongole erano buoni ugualmente.
Ne fummo tanto contenti di costatarlo che la sera stessa, per cena, tornammo nello stesso locale e facemmo il bis, di tutto. Questa volta però gli spaghetti li mangiammo subito, ancora fumanti, ed erano ancora più buoni.
Soltanto qualche anno più tardi scoprimmo che il formaggio sui piatti con i frutti di mare come vongole, cozze, gamberi e simili, proprio non ci va.