27.12.11
Non si vive di solo pane, ma anche... di poesia
di Tommaso Marini

 

Dicembre 2011

 

Trilussa - Capitolo IV

 

            Questo dicembre segna il quarto e, per adesso, ultimo incontro con Carlo Alberto Salustri, in arte Trilussa.  Personalmente ne sono dispiaciuto.  Trilussa è il poeta dialettale che leggo e rileggo ripetutamente, e sempre con immenso piacere.  In ogni suo sonetto, in ogni sua poesia riemerge una qualsiasi attività quotidiana, una qualsiasi circostanza, una qualsiasi riflessione, anche la più strana, che vaga nel nostro subconscio: è come se qualunque nostro pensiero fosse già stato elaborato, come se ogni nostra domanda  abbia già trovato una ragionata risposta.

            Ovviamente non sono in grado di verificare se queste mie sensazioni sono le stesse che voi provate nel leggere quanto propongo mensilmente, né tantomeno posso misurare (se ciò fosse possibile) la “passione” che ora vi lega alla poesia dialettale.

            Alcuni di voi avranno gradito quanto proposto come lettura, altri sicuramente meno ma non è questo il fatto importante.  Importante era l’avvicinarvi a questo “diverso” mondo letterario e farvi assaporare il pensiero e la filosofia popolana. Esserci riuscito, anche solo in minima parte, sarebbe per me motivo di grandissima soddisfazione.

            Per far sbocciare di una nuova passione c’è sempre tempo, c’è tempo fino… alla morte!  

 

            Certo, i più curiosi si domanderanno: “Quando ci si può definire appassionati di poesia dialettale?” La risposta non è affatto difficile, ma cercherò di esemplificarla.

            Allora immaginiamo che, al termine di questo nostro primo quadrimestre, le tante poesie di Trilussa proposte vi abbiano fatto sorridere, riflettere, gioire, rattristare e che al ripresentarsi di un simile stato d’animo vi sorga spontaneo citare un verso del poeta o recitare per intero una sua  poesia. Ebbene, posso assicuravi che siete sulla buona strada per divenire “appassionati”.    

            Fate però molta attenzione:  se la cosa vi succederà con frequenza… sarete irrimediabilmente condannati ad esserlo!

            Poi? Poi subentrerà “l’amore per la poesia dialettale”… e questa sarà la vostra fine! (Si racconta di “amanti della poesia dialettale” che hanno abbandonato la moglie, i figli, qualcuno il lavoro.  Poi isolatisi dal mondo, e nello spirito di questa rubrica, vivono di… sola poesia!)

 

            Quando il vostro subconscio, abitualmente, vi farà ripercorrere quelle cadenze poetiche, ripetere quelle parole, vivere la musicalità di quelle rime e la vostra voce trasmetterà all’orecchio il piacere dell’ascolto, allora, e solo allora, seguite il mio consiglio: procuratevi un buon avvocato (perché un avvocato serve sempre!) e prenotate 30 sedute con uno psicologo (meglio uno psichiatra, ma senza voler offendere!).

 

            Buona lettura a tutti

 

 

 

 

 

 

 

                        LA  SINCERITA’  NE  LI  COMIZZI

 

Er deputato, a dilla fra de noi,

ar comizzio ciagnede (1) contro voja,

tanto ch’a me me disse: - Oh Dio che noja ! -

Me lo disse, è verissimo: ma poi

 

sai come principiò ?  Dice: - E’ con gioja

che vengo, o cittadini, in mezzo a voi

per onorà li martiri e l’eroi,

vittime der Pontefice e der boja ! –

 

E, li, rimise fòra l’ideali,

li schiavi, li tiranni, le catene

li re, li preti, l’anticlericali …

 

Eppoi  parlò de li principi sui:

e allora pianse: pianse così bene

che quasi ce rideva puro lui !

 

      Trilussa 1920

 

Note:   (1) ci andò

 

 

                        ER  CAMMERIERE  INDECISO

 

Devi sapè che l’antra settimana

er signor duca ha dato ‘na gran festa,

che j’è costata un occhio de la testa

per via che cià la moje americana.

 

Ma la cosa più buffa è stata questa:

du’ signorine e una signora anziana

staveno a sede sopra un’ottomana

come se nun ciavessero la vesta.

 

Ecco che la signora, doppo er ballo,

m’ha detto: - C’è mi’ fija che vo un tè

un po’ allungato, ma piuttosto callo (1) … -

 

Io j’ho risposto: - Subbito, eccellenza !

Ma su’ fija, s’è lecito, qual è ?

Quella co’ le mutanne e quella senza ?

 

Note:   (1)  caldo

 

 

 

 

 

                        ER  DECIMO  GIURATO

 

Er perito spiegò ch’er delinquente

ciaveva la capoccia (1) sbrozzolosa (2),

e questa fu la parte più noiosa

perché nessuno ce capiva gnente.

 

Er decimo giurato solamente

restava co’ la fronte pensierosa

e scriveva ogni tanto quarche cosa

come d’un dubbio che ciavesse in mente.

 

Ma, sia pe’ distrazzione o che so io,

a un certo punto prese e stracciò er fojo

e lo buttò vicino ar posto mio.

 

Io l’ariccorsi per curiosità;

ciaveva  scritto: “Zucchero, petrojo,

ova, patate, strutto e baccalà …”

 

 

Note:   (1)  testa        (2)   piena di bitorzoli

 

 

                        L’INGIUSTIZZIE  DER  MONNO

 

 

Quanno che senti di’ “cleptomania”

è segno ch’è un signore ch’ha rubbato:

er ladro ricco è sempre un ammalato

e er furto che commette è ‘na pazzia.

 

Ma se domani è un povero affamato

che rubba una pagnotta e scappa via 

pe’ lui nun c’è nessuna malattia

che je impedisca d’esse condannato !

 

Così va er monno !  L’antra settimana

che Teta se n’agnede cor  sartore (1)

tutta la gente disse: - E’ una puttana. –

 

Ma la duchessa, che scappò in America

cor cammeriere de l’ambasciatore,

- Povera donna – dissero – E’ un’isterica !...

 

 

Note:      (1)  fuggì con il sarto

 

 

                       

 

                        SEIMILA  ANNI  FA …

 

Iddio fece un’inchiesta er primo giorno

pe’ vede come staveno le cose:

- Che sia fatta la luce ! – E j’arispose

l’eco der voto che ciaveva intorno.

In fonno ar cielo subbito spuntorno

le prime nuvolette luminose.

Che vidde allora ? Vidde un guazzabbujo,

un intrujo, un pasticcio,

un fricandò (1) de celo, terra e mare,

tanto che disse a un Angiolo: - Me pare

che me so’ messo in un gran brutto impiccio,

che me so’ messo in un gran brutto affare !-

Ma poi cominciò subbito er lavoro:

spartì (2) la robba, accese er sole e fece

la luna nova co’ le stelle d’oro,

e piante e pesci e bestie d’ogni spece.

J’usciva tutto quanto per prodiggio

come sorte la robba dar cappello

d’uno che fa li giochi de prestiggio.

Quer che pensava je veniva fatto.

 Ideava un ucello ? Ecco l’ucello.

Voleva un gatto ? Gnao … Nasceva un gatto.

Ma appena se trattò de fa’ er cristiano,

che je ce volle la materia prima,

annò a pijà la fanga d’un pantano.

 

Allora formò l’Omo,

je dette moje e, quello ch’è più peggio,

je combinò l’inghippo (3) de quer pomo.

(Pe’ ‘sto fatto er  Serpente

che sapeva er maneggio

se prestò gentilmente.)

Quanno Iddio se ne accorse, immagginate

la scena che ce fu ! Dice: - Ma come ?

Doppo che te do un monno,

doppo che te do un nome,

me diventi nemmico

per una svojatura che nun dico (4) !

Per penitenza te guadagnerai

er pane cor sudore de la fronte

dove ogni ruga porterà l’impronte

der peccato c’hai fatto, e morirai.

E a te, - disse a la moje –

giacchè nun sei rimasta su la tua,

farai la serva all’omo e, per via sua (5),

partorirai li fiji co’ le doje.

E, adesso, alé (6) ! sgullateve (7) le foje

e annateve a fa’ frigge tutt’e dua !

 

Dato ‘sto dispiacere, era destino

che ciavesse una brutta gravidanza:

Eva, defatti, partorì Caino,

doppo je nacque Abele e er resto poi

lo sapete benissimo da voi.

Un giorno, in una brutta circostanza,

Caino ner passà da la foresta

trovò er fratello, je spaccò la testa,

e così cominciò la fratellanza.

 

      9 gennaio 1917

 

Note (1)  miscuglio    (2)  divise    (3)  impiccio    (4)  capriccio    (5)  per causa sua     (6)  via     (7)  toglietevi

 

 

                        UN  RE  UMANITARIO

 

Er giorno che Re Chiodo fu costretto

de dichiarà la guerra a un Re vicino

je scrisse: - Mio carissimo cuggino,

quello che leggi è l’urtimo bijetto;

semo nemmichi: da domani in poi

bisogna sbudellasse fra de noi.

 

La guerra, come vedi, è necessaria:

ma, date l’esiggenze der progresso,

bisognerà che unisca ar tempo istesso

la civirtà moderna e la barbaria,

in modo che l’assieme der macello

me riesca più nobbile e più bello.

 

D’accordo cor dottore pensai bene

de fa’ sterilizzà le bajonette

perché er sordato venga fatto a fette

a norma de le regole d’iggene,

e a l’occasione ciabbia un lavativo

pieno de subblimato corosivo.

 

Pe’ fa in maniera ch’ogni schioppettata

se porti appresso la disinfezzione

ho fatto mette ne la munizzione

un pezzo de bambace fenicata:

così, cor necessario de la cura,

la palla sbucia e la bambacia attura.

 

Fra l’antri innummerevoli vantaggi,

come sistema de riscaldamento

ho stabbilito ch’ogni reggimento

procuri de da’ foco a li villaggi.

Incomincia a fa’ freddo e capirai

che un po’ d’umanità nun guasta mai.

La polizzia scentifica ha già prese

l’impronte diggitali a tutti quanti

pe’ distingue l’eroi da li briganti

che fanno l’aggressione ner paese;

sarebbe un’ingiustizzia, e quer ch’è peggio

nun se saprebbe più chi fa er saccheggio.

 

Ho pensato a la fede.  Ogni matina

un vecchio cappellano amico mio

dirà una messa e pregherà er bon Dio

perché protegga la carneficina.

Così, se perdo, invece der governo

rimane compromesso er Padre Eterno.

 

Ah ! nun poi crede quanto me dispiace

de strascinà ‘sto popolo a la guerra,

lui che per anni lavorò la terra

co’ la speranza de godè la pace;

oggi, per un capriccio che me pija,

addio campi, addio casa, addio famija !

 

Un giorno, appena tornerà er lavoro,

in queli stessi campi de battaja

indove ha fatto stragge la mitraja

rivedremo ondeggià le spighe d’oro:

ma er grano sarà rosso e darà un pane

insanguinato da le vite umane.

 

Ma ormai ce semo e quer ch’è fatto è fatto:

vedremo infine chi ciavrà rimesso.

Addio, caro cuggino; per adesso,

co’ la speranza che sarai disfatto

te, co’ tutto l’esercito, me dico

er tuo affezzionatissimo nemmico.

 

                  Ottobre 1914  

 

                        L’ASSASSINO   MODERNO

 

Eccome qua da lei, sor delegato:

vengo per l’omicidio ch’è successo.

Io so’ Pasquale Teppi: lo confesso,

so’ stato proprio io che l’ho ammazzato.

 

Me so’ costituito solo adesso

pe’ via che jeri m’hanno intervistato,

e avevo da parlà co’ l’avvocato

pe’  famme la difesa ner processo.

Ho scritto la rettifica ar giornale:

mo stò tranquillo … Eppoi legga l’articolo

quarantasei der Codice Penale.

Lo vede ? E’ chiaro ! Data la questione,

me posso mette, se nun c’è pericolo,

completamente a sua disposizzione.

 

Qual è stato er movente der delitto ?

Come sarebbe a di’ ?  quale movente ?

Io, pe’ me tanto, nun movevo gnente

se l’ammazzato fosse stato zitto.

 

Domani, ne la lettera ch’ho scritto,

je spiego l’omicidio chiaramente,

e lei ch’è una persona inteliggente

dirà se stavo o no ner mio diritto.

 

Perfino l’avvocato me consija

de confessà sinceramente er fatto

perché me sarva un vizzio de famija:

 

nonno beveva, nonna più de lui,

mi’ padre, poveretto, è morto matto,

mi’ madre era epilettica: per cui …

 

Co’ questo sto a cavallo, è indubbitabbile;

più c’è un perito de frenologgia

ch’ha già trovato su la faccia mia

li segni d’un carattere eccitabbile.

 

Perché ciò l’osso in fòra, l’occhio stabbile,

la fronte bassa che me scappa via …

Tutto un insieme de fisonomia

che c’è nell’omo semi-responsabbile.

 

Cor una prova in mano come questa

dimostro che so’ nato delinquente

pe’ la conformazzione de la testa:

 

e s’ho mannato un omo all’antro monno

la corpa è tutta quanta dipendente

da quele sbornie che pijava nonno.

 

                               Trilussa,  1909

 

 

                        L’ANGELO  CUSTODE

 

L’omo cia sempre un Angelo Custode

che l’accompagna come un cagnolino:

e ‘st’angeletto che je sta vicino

l’assiste quanno soffre e quanno gode,

je custodisce l’anima e nun bada

che a incamminallo su la bona strada.

Io, quello mio, me lo figuro spesso,

anzi me pare quasi de vedello:

dev’esse un angeletto attempatello

così scocciato de venimme appresso

che ogni vorta che faccio una pazzia

invece d’ajutamme scappa via.

 

Defatti dove stava quela sera

ch’agnedi da Giggetta e la cosai (1)?

Doveva dimme: - Abbada a quer che fai !... –

Ma certamente l’Angelo nun c’era,

o, forse, avrà pensato, ner vedella:

- Pur io farei lo stesso: è troppo bella ! –

 

Nun me doveva di’ ch’ero uno scemo

quanno, p’er gusto de sposà la fija,

me misi a casa tutta la famija ? …

(Se ce ripenso adesso ancora tremo !

Sette persone, un cane e una gallina

che m’impiastrava tutta la cucina !)

 

Nun me doveva da’ de l’imbecille

quer giorno che firmai le cambialette

a Isacco lo strozzino che me dette

seicento lire e ne rivolle mille ?

Quante ce n’ho sofferte ! E chi sa quante

n’avrà passate er povero avallante !

 

Ecco perché ce vado pe’ le piste (2),

ecco perché me sbajo in bona fede:

la corpa è tutta sua, ché nun me vede:

la corpa è tutta sua, ché nun m’assiste:

la corpa è tutta sua, ché nun me fa er controllo

quanno s’accorge che me rompo er collo.

 

A cose fatte, poi, me torna accanto,

me chiama, me mortifica, me strilla …

- Tu – dice – nun ciai l’anima tranquilla …

- Purtroppo ! – dico – e me dispiace tanto !

Ma nun ce casco più, te l’assicuro …

- Davvero ? Me lo giuri ? – Te lo giuro … -

 

E ognuno dice le raggione sue

quasi pe’ libberasse dar rimorso:

ma però se capisce dar discorso

che ce pijamo in giro tutt’e due:

ché appena me ricapita una quaja (3)

io ce ricasco e l’Angelo se squaja.

 

Note (1) verbo usato al posto di altro verbo che si vuol tacere   (2)  ci vado di mezzo      (3) buona occasione

 

                        ER  SIGNORE  DECADUTO

 

                        I

E spenne e spanne, fra le donne e er gioco

e a furia de dà’ feste e de dà’ balli

li quatrini finiva pe’ buttalli

come se butta la cartaccia ar foco.

 

Ha visto sparì tutto a poco a poco:

er palazzo, la villa, li cavalli,

li servitori co’ li bordi gialli (1)

er maggiordomo, er cammeriere, er coco …

 

E arazzi e quadri e lampadari e specchi …

Povera robba ! Se n’annò a fa’ fotte (2)

da l’antiquari e da li robbivecchi (3).

 

Der patrimonio, ormai, nun j’è restato

che un’ottomana co’ le molle rotte

e ‘na cornice senza l’antenato.

 

                  II

Peppe de Borgo (4), er vecchio cammeriere

che lo servì nell’epoca più bella,

ha aperto un bucio (5), assieme a la sorella:

“All’antica osteria del Belvedere”.

 

Er principe ce va tutte le sere

e lì, tra un mezzo litro e ‘na ciammella (6),

principia a raccontà quarche storiella

mentre accarezza l’orlo der bicchiere.

 

- Peppe, te n’aricordi de quer ballo

che, doppo cena, persi la pazzienza

e sfasciai fino all’urtimo cristallo ? –

 

- Si, - dice Peppe – C’era Sciarra, Orsini (7)

m’aricordo benissimo, eccellenza … -

Eppoi sospira: - Poveri quatrini ! –

 

                  III

Eppuro, doppo quello ch’è successo,

spasseggia e se la fuma allegramente:

anzi, dar giorno che nun è più gnente,

è più che mai padrone de se stesso.

 

Se passa sotto, e je succede spesso,

ar palazzo abbitato anticamente,

arza la testa e guarda indifferente

la mostra (8) d’un dentista che c’è adesso …

 

E rivede attraverso un finestrone

Er Satiro che balla er sartarello (9)

Dipinto sur soffitto der salone;

allora, ripensando ar tempo antico,

- Tu solo – dice – sei rimasto quello !... -

E lo saluta come un vecchio amico.

 

Note (1) in livrea    (2)  dispersa     (3)  rigattieri     (4)  XIV Rione di Roma     (5)  osteriola     (6)  ciambella   

           (7)  principi romani     (8)  insegna     (9)  ballo romanesco

 

 

                        CAMMERA  AMMOBBIJATA

 

Quanno ne li momenti d’allegria

ripenso a quarche buggera (1) passata,

me ne rivado co’ la fantasia

in quela cammetta ammobbijata

dove quann’ero giovane aspettai

la bella donna che nun viddi mai.

 

La sora Pia me disse: - Signorino,

se volesse passà verso le sei

a Via dell’Orso (2), dieci, mezzanino,

je manno un tipo come piace a lei:

un bocconcino proprio da poeta … -

E se baciò le punta de le deta.

 

Perché ‘sta sora Pia, che da l’aspetto

pareva una degnissima signora,

s’affittava la cammera da letto,

tutto compreso, a dieci lire l’ora,

e spesso combinava l’abbordaggio (3)

co’ quarche scampoletto de passaggio (4).

 

- Io – disse – n’ho vedute de regazze:

ma co’ quell’occhi, mai !  So’ color celo:

che, quanno li tiè bassi, le pennazze (5)

je fanno un’ombra blu, che pare un velo.

Eppoi che bocca !  Fra le tante cose

ce se diverte a mozzicà (6) le rose.

 

Ecco la chiave.  Vada pure franco;

troverà scritto su la porta mia:

“Pia Sbudinfioni, cucitrice in bianco”.

Entri e l’aspetti; eppoi, quanno va via,

me rimette la chiave ner cantone

dedietro ar busto de Napoleone. –

 

Nun ve dirò le smanie de quer giorno !

Appena entrato ne la cammeretta

smicciai (7) le cose che ciavevo intorno:

er letto, er commodino, la toletta

capii che m’aspettaveno, ma senza

damme neppuro un po’ de confidenza.

Rivedevo in un ritratto scolorito

la sora Pia, coll’abbito da sposa,

arrampicata ar braccio der marito

che, proprio sur più bello de la posa,

aveva fatto un segno de protesta

perché la bomba (8) nun je stava in testa.

 

Napoleone, ne l’atteggiamento

de chi vede er destino da lontano,

fissava rassegnato un paravento

che invece riparava un lavamano,

e faceva una smorfia co’ la bocca

quasi volesse dì: sotto a chi tocca !

 

Co’ la speranza de trovà un sorriso

me guardai ne lo specchio, ma er cristallo,

spaccato in mezzo, me sformava er viso:

me vedevo li denti de cavallo,

er naso sfranto (9) e l’occhi stralunati

da nun conosce più li connotati.

 

- Va’ via, ch’è mejo … - me diceva er core

che in certi casi nun se sbaja mai –

Se a diciott’anni paghi già l’amore,

quanno n’avrai cinquanta, che farai ?

T’illudi forse che la gioia nasca

così, a la ceca, come casca casca ?

 

L’amore, quello vero, se conquista.

Tu, invece, te prepari a da’ li baci

su la bocca, che ancora un hai vista,

d’una donna che forse nun je piaci,

ma te farà la stessa pantomima

ch’ha fatto a quello che c’è stato prima. –

 

Guardai che or’era: ce mancava poco.

Un po’ de sole entrava ne lo specchio

come una freccia e lo mannava a foco.

Pensai: - Ce tornerò quanno so’ vecchio … -

E rimisi la chiave ner cantone

dedietro ar busto de Napoleone.

 

      Trilussa, 1938

 

Note:  (1) sciocchezza     (2)  via centralissima di Roma    (3)  l’incontro    (4)  d’occasione                          (5)  ciglia       (6)  mordere     (7)  sbirciai     (8)  la tuba     (9)  schiacciato

 

 

 

 

 

                        ER  TESTAMENTO  DE  MEO  DEL  CACCHIO

 

Oggi li ventinove de febbraro

der millenovecentotrentasette,

doppo bevuto dodici fojette (1)

assieme ar dottor P., reggio notaro,

benché nun sia sicuro de me stesso

dispongo e stabbilisco quanto appresso.

 

Io sottoscritto, Meo del Cacchio, lascio

li vizzi e l’abbitudini cattive

a mi’ nipote Oreste che, se vive,

n’he da fa’, come me, d’ogni erba un fascio,

se invece more passo l’incombenza

a un istituto de beneficenza.

 

Lascio a l’Umanità, senza speranza,

quer tanto de bon senso e de criterio

che m’ha ajutato a nun pija sur serio

chi un giorno predicò la Fratellanza,

eppoi, fatti li conti a tavolino,

condannò Abbele e libberò Caino.

 

Lascio un consijo a Zeppo er cameriere

che se lamenta d’esse trovatello,

de nun cercà se er padre è questo o quello

ma cerchi de fa’ sempre er su’ dovere

pe’ rende conto solamente a Dio

s’è fijo d’un cristiano o d’un giudio.

 

Lego er pudore de li tempi antichi

a un vecchio professore moralista

che pe’ coprì le porcherie più in vista

spojava tutti l’arberi de fichi,

ma a la fine, rimasto senza foje,

lasciò scoperte quelle de la moje.

 

Lascio a Mimì le pene che provai

quanno me venne a da’ l’urtimo addio:

- M’hai troppo compromessa, cocco mio …

Qua bisogna finilla, capirai …

Pippo sa tutto … nun è più prudente …

(E invece Pippo nun sapeva gnente !)

 

A l’avvocato Coda, perché impari

a vive co’ la massima prudenza,

je lascio quela “crisi de coscienza”

che serve spesso a sistemà l’affari

e a mette ne lo stesso beverone

la convenienza co’ la convinzione.

 

A un’eccellenza … (scurerà l’ardire)

je lascio invece un piccolo rimprovero:

perché, dieci anni fa, quann’era povero,

annava a caccia de le cinque lire

e adesso che n’ha fatte a cappellate

nun riconosce più chi je l’ha date ?

 

A Tizzio, a Caio e a tutti queli fessi

rimasti sconosciuti fin’a quanno

nun so’ arivati a un posto de commanno

je lascio er gusto d’ubbidì a se stessi:

così a la fine de la pantomima

ritorneranno fessi come prima.

 

A Mario P., che doppo er Concordato

nun attacca più moccoli e va in chiesa,

je lascerò, sia detto senza offesa,

er sospetto che ciabbia cojonato

e fosse più sincero ne li tempi

quanno ce dava li cattivi esempi.

 

Lego ar portiere mio, ch’è sordomuto,

la libbertà de di’ come la pensa,

e a Giovannino l’oste, in ricompensa

de tutt’er vino che me so’ bevuto,

je legherò le verità sincere

rimaste in fonno all’urtimo bicchiere.

 

Lascio a  Zi’ Pietro un po’ de dignità,

che cià perfino la gattina  mia

che appena fatto quarche porcheria

la copre co’ la terra e se ne va,

mentre Zi’ Pietro, invece de coprilla,

ce passò sopra e fabbricò una villa.

 

Lascio a l’amichi li castelli in aria

ch’ho fabbricato ne la stratosfera,

dove ciagnedi (2) in volo quela sera

con una principessa immagginaria

e feci un atterraggio de fortuna

in mezzo a la risata de la luna.

 

E a mi’ cuggino Arturo, che nun bada

che a le patacche (3) de la vanagloria,

lascio l’augurio de piantà la boria

pe’ vive in pace e seguità la strada

senza bisogno de nessun pennacchio,

ma sempre a testa dritta !

                                         Meo del Cacchio

 

Note (1) fogliette, boccali      (2)  ci andai     (3)  medaglie, onorificenze

 

 

PROVERBIO  DEL  MESE (completo)

Eventi atmosferici, malanni, animali e persone male augurate

 

Dio ce ne scampi da’ llampi e da i’ vvento

e da i’ frate che sorte i’ convento,

da i’  vermo che và da i’ finocchio,

Dio ce ne scampi da chi cià  sbiego un occhio.

 

Dio ce ne liberi da  ‘a peste e i’ culera,

dall’acqua, da i’ foco, da fame, da guera,

da chi, quanno parle, nun te guarde da faccia,

Dio ce ne liberi da chi fa i’ magnaccia.

 

Dio ce ne sarvi da’ lipra ‘nguattata

Da i’ cane che dorme, da’ berva affamata,

dall’omo “saputo”, da chi è “interessato”,

Dio ce ne sarvi da ogni avocato.

 

Dio ce preservi da i’ male Zubbione,

da’ pistola, ‘a mitraglia o, peggio, i’ cannone,

da’ mala vicina, da chi è troppo bella,

Dio ce preservi da’ vecchia zitella.

 

                                                              Antico proverbio vignanellese, 1479  (forse !) 

 

 

                   Saluti cari ed Auguri per un Felice Anno Nuovo

 

Vignanello, li 27 dicembre 2011 

                                                                              Tommaso  Marini