27.01.11
...e per ogni mese, un Vignanellese
di Tommaso Marini

GENNAIO  2011

Come vi sarete tutti accorti, questa sezione curata da Tommaso Marini è giunta al primo anno di età, e con questo contributo entra nel suo secondo anno. Sono sinceramente grato a Tommaso per tutti i personaggi e gli aneddoti che ci sta raccontando e che ci hanno fatto conoscere in modo sempre più intimo tanti aspetti del nostro paese e di chi lo ha vissuto negli anni passati. Fatti e figure spesso del tutto ignote ai più giovani.

Io lo ringrazio, mi ripeto, anche se ogni volta è lui a ringraziare me, che tutto sommato faccio ben poco, limitandomi ad impaginare queste sue righe, dopo averle lette un paio di volte, quasi sempre, alla fine, asciugandomi gli occhi... per le risa o per la commozione.

Non si sa bene se avremo altri "Vignanellesi" a sufficienza per tutto il 2011, ma di certo questo appuntamento mensile verrà rispettato, volente o nolente, caro Tommaso, ormai ti tocca!

Con affetto,
Vincenzo

 

‘A TIGNA

(La Tigna, in lingua italiana)

 

PARTE I

 

            Il titolo di questo mio racconto non è altro che il sinonimo di quel che, in dialetto, utilizziamo come termine per indicare il puntiglio, la testardaggine, la stizza, la rabbia, l’irremovibilità.

            La tigna risiede stabilmente nel DNA di qualsiasi individuo, tanto da essere considerata una malattia genetica tra le più diffuse.

            Il germe di tale virus si autodistrugge, per fortuna, a breve distanza dalla nascita. In alcuni casi, purtroppo sempre più frequenti, tale virus permane e diviene talmente aggressivo da costituire una vera e propria sindrome: dominante nel carattere, ereditaria, contagiosa e difficilmente curabile.

            Le persone afflitte da questa “estrosa malattia” sono i tignosi, i puntigliosi, i testardi, gli stizzosi, i rabbiosi, gli irremovibili.

            Le manifestazioni di tale “malattia” risultano palesemente evidenti: sono la negazione dell’evidenza, la contrarietà a qualsiasi opinione di massa, la critica costante per tutto e per tutti, l’esternazione di personali convinzioni preconcette, estemporanee affermazioni palesemente inaccettabili, incredulità su fenomeni e fatti ampiamente dimostrati.

            Intignare, anzi “‘ntignare”, è il verbo che meglio esprime l’azione svolta da tali soggetti e la testardaggine è l’effetto collaterale che deriva da tale preoccupante sindrome, unitamente alla rabbiosità, alla stizzosità, ai modi poco civili, a tutto quello, insomma, che risulta contrario alla tranquilla convivenza ed alla spicciola diplomazia.

            Spesso gli effetti di tale “sindrome” espongono il malato a fatti e circostanze che sfiorano l’assurdo, conducono a situazioni bizzarre, diventano motivo di scherno e di esilaranti giudizi ed è motivo, per la comunità, di decretare ufficialmente l’appartenenza del soggetto alla poco ambita categoria dei “tignosi”.

            L’essere “tignosi” diventa successivamente un modo di vita, diventa il modo di esternare ciò che si pensa ma che non si riesce a sostenere con motivazioni circostanziate, diventa la copertura di un’infinita timidezza che si cerca di nascondere.

            Due indicazioni per rapportarsi ai “tignosi”:

1) mai chiedere al “tignoso” l’ammissione di appartenenza a tale categoria perché, stando al fatto che “si vede la pagliuca nell’occhio del vicino e non la trave che è nel nostro occhio ”, tale richiesta risulterebbe tempo perso;

2) mai ricordare al “tignoso” la geneticità di questo suo particolare lato del carattere. Criticando gli ascendenti come “irremovibili” e “puntigliosi”, si otterrebbe solo una timida ammissione di “rigidità di educazione”.

            Comunquemente (utilizzando un avverbio del simpatico Albanese), la “tigna” non viene punita in nessun girone dell’inferno dantesco e quindi non deve essere considerata un “peccato grave”; è certa invece la difficile convivenza con il “prossimo” che a volte soffre per tale malattia ed altre ne gioisce mettendola “alla berlina”.

         Una cosa deve essere assolutamente detta, in special modo per quei “tignosi” che non risultano né ricchi né potenti: non vanno confusi con i cattivi d’animo, gli insensibili, i menefreghisti, i maldisposti perché “questi affetti da tigna” risultano solitamente persone di “gran cuore”.

         Il mio racconto tratterà di questo particolare aspetto del carattere umano. Racconterò con piacere di tre personaggi, solo marginalmente afflitti da tale “sindrome”, a cui sono particolarmente legato: per due di essi da motivi familiari, per il terzo da personale simpatia.

 

FERNANDO PUGLIESI
13 Dicembre 1913 - 28 Aprile 2005

 

         Zio Fernando nasce a Vignanello il giorno di S. Lucia, da Angelo, fabbro (Angelino i’ fabbricchio 1885 – 1965) e da Mecozzi Zaira, sarta (1888 – 1975).

            E’ il secondo di sei figli: Barbara, sarta (1911 – 2003), mia madre Ida, sarta (1916 – 2000), Andrea, piccolo imprenditore (1922 – 2006), Elsa, sarta (1925 – 1981), Antonio, poliziotto (1928 – 1986).

            Zio Fernando segue le orme di nonno Angelino, fabbro ferraio, e sarà, fino a tarda età, un eccezionale artigiano, capace di riprodurre fedelmente serrature, chiavi e meccanismi di chiusura, come fossero stati forgiati negli anni del medioevo.

            Ricordandolo con i miei occhi da bambino, lo raffiguro ancora come dio Vulcano: due braccia possenti, mani grandi e dure, viso scurito dalla polvere del ferro battuto, occhi color di bragia, quella bragia che continuamente attizzava e ventilava per alimentare l’energia termica necessaria al suo lavoro.

         Diciamo subito che “i Pugliesi” sono “tignosi” per discendenza e che il matrimonio di mio nonno con “una Mecozzi”, altra famiglia di “irremovibili”, acuì notevolmente tale “sindrome”.

            Va da sé che Fernando non poteva non aver ereditato tale “morbo”. Forse qualche “germe” risiede anche nel mio DNA e l’unica speranza è che il mio stadio di malattia non raggiunga la fase di cronicità: la fase peggiore nella quale si diventa noiosi ed intolleranti.

            Raccontava mia madre che, in inverno, da piccola veniva lasciata con lo zio nello stanzone dove un camino li aiutava a superare le giornate più fredde. Fernando era solito bruciare le pezze di stoffa che sua madre Zaira scartava e con queste impauriva Ida.

            Zaira riprendeva continuamente il figlio per la pericolosità del gioco, ma questi non sentiva ragione. Il pomeriggio terminava regolarmente con Fernando castigato per disubbidienza e Ida che piangeva a squarciagola per i dispetti subiti e per i calci del fratello messo in punizione.

         In uno di quei pomeriggi Fernando, con una pezza in fiamme infilzata ad uno spiedo e al grido di: “Mo’ te cocio, mo’ te cocio” bruciò il collo di mia madre e tale segno rimase indelebile per il resto della sua vita.

            Fernando fu tenuto “a digiuno” per qualche giorno con la speranza di una redenzione, ma la “pena” non sortì alcun effetto: la settimana successiva il pericoloso gioco riprese tranquillamente.

            Angelo e Zaira furono genitori ineguagliabili per l’impegno profuso al sostentamento della famiglia, ma poco attenti alle necessità di crescita dei figli (era il comun denominatore dell’educazione impartita all’epoca), la casa era piccola, le esigenze dovevano essere ridotte e le richieste dei figli spesso bocciate: un vero regime da caserma che rimase nel carattere di tutti i figli.

         A 15 anni Fernando iniziò il suo tirocinio da fabbro, attività che esercitò fino ad oltre ottanta anni ed interrotta periodicamente dai frequenti “richiami” militari.

            A 20 anni Fernando prestò servizio militare di leva: era di stanza a Roma, in Via Labicana. Erano suoi commilitoni: mio padre Caio (1913 – 1994), Vando Paola (1913 – 1984), Vincenzo Segarelli (1913 – 1972), Maurizio Bracci (1913 – 2002) e un certo Pace di Vasanello (il loro quarto ed ultimo “richiamo” sarà del 26 gennaio 1941: destinazione Cormons (GO), confini Jugoslavi).

            Il suo carattere insofferente e stizzoso lo rese “motivo di spasso” per un sottufficiale, con la conseguente “sadica” assegnazione di tutti i peggiori “servizi di caserma”; ogni sua minima rimostranza veniva impietosamente punita con giorni e giorni di consegna. Mio padre diceva che aveva fatto più giorni di consegna che di militare.

            Fernando è il primo da sinistraGli ordini di servizio gli venivano sempre comandati “per iscritto” e pertanto era impossibile qualsiasi ribellione, se non con il rischio di gravissime conseguenze disciplinari.

            Un giorno, però, il signor sergente commise l’errore di comandargli un “servizio di ramazza” in modo verbale e senza la presenza di testimoni: Fernando non perse l’occasione, prese scopa, spazzolone e secchio, corse verso la scalinata in cima alla quale si trovava il signor sergente e, volutamente, lo urtò facendolo ruzzolare per l’intera gradinata. Poi si avvicinò al sottufficiale, rimasto vistosamente contuso, e con sguardo cattivo gli disse: “Quest’addra vorda te ce lascio pe’ ‘e scale!”. Lo disse in maniera tanto cattiva che da quel giorno non ricevette più angherie.

           

Giuseppina e Rosina            Nel gennaio 1936, tornato dal servizio di leva e ripreso il suo lavoro, contrasse matrimonio con Giuseppina Santi (1914 – 1944), nel 1936 nacque il primogenito Angelo, nel 1939 Antonio e nel 1941 Rosina.

            Era una famiglia felice, nonostante i ricorrenti “richiami” di Fernando, che offrì alla Patria ben sei anni di vita, e le contenute disponibilità economiche. Zio Fernando era fabbro, lavorava con suo padre Angelo e le entrate di tale attività non soddisfacevano il fabbisogno di due famiglie. Mio nonno Angelo poteva contare su qualche discreto guadagno di nonna Zaira che lavorava da sarta, ma zio Fernando non aveva altre opportunità; in più la guerra e l’obbligo di arruolamento lo riempivano di ansia e di amarezza.

            Il periodo sicuramente più difficile fu quello compreso tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944, un arco di tempo tanto breve e pesantemente doloroso che avrebbe distrutto le speranze e la vita di chiunque: Antonio, suo secondogenito di 4 anni, contrasse il tetano e morì il 9 dicembre 1943.

            Ma, poiché le disgrazie non arrivano mai sole, anche Giuseppina, sua moglie di 30 anni , contrasse il tetano (forse per contagio, dal figlio) e morì il 19 gennaio 1944.

            Fernando aveva lasciato la divisa nel settembre del 1943 e certamente quei 40 giorni furono per lui come l’anticamera della morte: era rimasto con due piccole creature (7 anni Angelo e 2 anni Rosina) da crescere, accudire e sfamare senza nessuna certezza se non l’aiuto dei parenti più stretti.

            Dimostrò un grande carattere e coraggio Fernando: sconfortato riprese l’attività di fabbro, profuse tutto se stesso in quel lavoro e lentamente risalì il baratro, in cui era precipitato.

Fernando e Nicolina            Il lavoro sembrava dare buoni frutti e quindi decise di riunire la famiglia (sparpagliata per causa di forza maggiore in casa di altri parenti). Nel 1947 si unì in matrimonio con Nicolina Proietti (1925 – 2000) e nel 1948 nacque nuovamente Antonio.

            Zia Nicolina è stata una donna eccezionale; aveva l’energia di un uomo ed una disponibilità assoluta in tutto. Non si lamentò mai delle troppe incombenze matrimoniali, del troppo lavoro casalingo, della iniziale sistemazione abitativa un po’ disagiata. Curò ed accudì Angelo e Rosina con amore ed attenzione, forse più di Antonio suo figlio. Ho ancora di lei un carissimo ricordo.

            Gli anni cinquanta segnarono, per Fernando, l’inizio del suo benessere economico. Dante Ascenzioni (1911 – 1996) ed il fratello Torquato (1920 – 2006) costruirono quasi per intero Via San Rocco (a partire dal civico 64) ed affidarono a zio Fernando la realizzazione di tutto ciò che richiedesse l’opera di un fabbro: ringhiere, parapetti metallici, porte di rimesse, scale a chiocciola, armature metalliche e quant’altro. Queste opportunità gli consentirono l’acquisto di una nuova casa in Via San Rocco, il nuovo quartiere che rapidamente prendeva forma.

            Zio Fernando aveva maggiori disponibilità economiche è vero, ma non aveva dimenticato i suoi difficili trascorsi dando dimostrazione di magnanimità verso parenti, amici, conoscenti e gente comune. Le sue prestazioni professionali avevano parcelle ridicole, tali da non coprire neanche la perdita di tempo, ma zio Fernando era così: poteva spendere poco da giovane e riteneva che analoga circostanza potesse riguardare anche i suoi “clienti”.

            Per la verità non aveva mai dato molta importanza al denaro: quando non lo aveva, per ovvii motivi, quando ne poteva disporre, perchè non lo riteneva essenziale.

            Quando uscì una legge che gli avrebbe consentito l’accesso ad una pensione di guerra in virtù degli anni trascorsi sotto le armi, non si degnò neanche di fare la domanda di richiesta: “Mo’ se fanno sentì ? Quanno c’eo bisogno mica s’è visto nissuno! Nu’ voglio gnente: poco c’eo e poco ci ho!” continuava a ripetere.

            Era un assiduo giocatore di “zecchinetto” (gioco d’azzardo vietato, praticato clandestinamente in paese e gioco preferito anche dal padre Angelino) ma, a differenza di altri giocatori che rischiavano la “rovina”, lui rischiava appena il minimo: se la serata gli era favorevole continuava a giocare ma, quando la perdita raggiungeva il suo “budget”, silenziosamente spariva: spesso senza neanche salutare .

            Fernando aveva un carattere “strano” (dicevano tutti), forse sarebbe meglio definirlo difficile, difficile e ostico per tutti i motivi finora ricordati.

            La “sua officina” era in Via della Mola n. 10: era poco attrezzata e poco luminosa, un locale ampio scavato nel tufo del sovrastante “Barco Ruspoli”. Aveva una piccolissima finestra da dove riusciva ad uscire appena il fumo prodotto dalla forgia sempre accesa. Sulla parte di destra una rastrelliera artigianale custodiva un frullino, pochi attrezzi da meccanico e molti da fabbro, al centro del locale una grossa incudine su ceppo in legno, una forgia a carbone con ventilazione meccanica, sulla parete di sinistra un trapano a colonna, un seghetto alternativo elettrico, una troncatrice a disco ed una limatrice elettrica, una saldatrice elettrica, una ad ossigeno ed un saldatore a stagno.

            Bene, con queste cose zio Fernando riusciva magicamente a fare tutto, ma proprio tutto!

Certo, non investiva in materiale di consumo (ad eccezione delle sigarette, che consumava abbondantemente e che, per ripicca nei confronti di Fernando Mezzopra “Fernando Ditta”, acquistava a Vallerano presso il Bar Tabacchi di Vittorio Pacelli “al Poggiolo”) del quale disponeva in quantità molto limitata.

            La necessità di materiale, di cui non disponeva, lo costringeva spesso a percorrere (rigorosamente a piedi in quanto nemico dei mezzi di locomozione e del progresso in genere) il tratto di strada che lo separava dalla “sua officina” al negozio di ferramenta Chiricozzi, ubicato in Corso Matteotti 3 (un chilometro, circa, tra andata e ritorno).

            L’acquisto più frequente erano gli elettrodi di saldatura: un pacco per volta e del cui costo si lamentava immancabilmente, ritenendolo troppo alto anche se, in realtà, era il costo che veniva richiesto da anni ed anni.

            Per qualunque altra cosa, necessaria anche per un improvviso lavoro (magari era appena ritornato da un altro acquisto), “smadonnava” un po’ e poi, chiusa accuratamente a chiave la “sua officina” (“Perché – diceva – nun se sa mai chi cce ccapite!”) ripercorreva la strada, sempre a piedi, per ritornare da Adriano Chiricozzi “i’ fferamenta”. Era capace di percorrere quel tratto di strada decine di volte al giorno senza mai perdersi d’animo.

            Passando di fronte alla “sua officina” mi fermavo spesso per un saluto o per ammirare la sua testarda capacità nel lavoro: era sempre “arrabbiato” contro tutti, politici, americani, laziali, nazionale di calcio, progresso, condizioni climatiche, tasse.

            Era l’occasione per farlo “sfogare” e per conoscere il suo molto personale modo di fare e, soprattutto, di dire: quel modo che ancora oggi tutti ricordano con simpatia. Sì, con simpatia, perché zio Fernando nella sua “stranezza” era una persona simpatica e dolcissima, anche se ciò non traspariva affatto dalle sue irruenti maniere: era un grande “amico” a cui potevi chiedere di tutto con la certezza che ti avrebbe aiutato; era un buon padre di famiglia che avrebbe dato se stesso per soddisfare le esigenze dei congiunti.

Fernando e Robertino Ferri            E’ vero, non amava la politica dei compromessi, lui guardava rigorosamente a destra e criticava coloritamente la sinistra, non amava gli americani che lo avevano sconfitto in guerra, gradiva il freddo d’estate ed il caldo d’inverno perché era “contro”, amava recarsi al mare di domenica con Adolfo Ercoli (Adolfetto 1924 - 1999) e Vittorio Lelli (Briscolone 1919 – 2002) oppure con Roberto (Robertino) Ferri di Canepina, faceva visita al “compare” Clisse Ciambella (1923 – 1965) a Sant’Angelo alto, trascorreva il giovedì pomeriggio a Vallerano nei locali della “Bettala di San Vittore” doFernando, Antonio e Clisse Ciambellave aveva un’infinità di amici (ed aveva l’innato piacere di offrire da bere a tutti i presenti), criticava l’aumento delle tasse senza rendersi conto che, ormai pensionato, non avrebbe subito conseguenze, era agguerrito tifoso romanista: intrattabile quando la squadra perdeva, vistosamente emozionato nel caso di vincita.

            Due cose ho lasciato appositamente per ultime: la Lazio e l’Allunaggio. Queste due circostanze hanno certamente influito sul giudizio solitamente espresso per questa persona.

            La “sentenza”, emessa in occasione di una partita della Lazio, partita importante ai fini della vincita del campionato di calcio e alla quale i tifosi vignanellesi erano andati ad assistere, viene ogni tanto rievocata in uno dei due Bar di Piazza della Repubblica (oltre a quella più comune degli incontri di calcio della nazionale italiana per i quali lui tifava, abitualmente, per gli avversari!)

            La circostanza è banale, ma serve per entrare nel personaggio Fernando. Ore 14,00: Fernando si reca al Bar per ascoltare i risultati delle partite (l’era di Sky o Mediaset Calcio era al di là da venire). In Piazza alcune persone che conoscevano l’indole del soggetto colgono l’occasione per ascoltare un’esternazione che non poteva non essere originale: Fernando e Stefano“Fernà – lo chiama ad alta voce un conoscente – ha ‘nteso? I Llazziali so ‘nnati giù a vedè ‘a partita co’ du’ pullma? Ha’ capito? Du’ pullma?”, “Ho capito, ho capito! – risponde Fernando – Che nun potesse venì più su nissuno, pe’ i’ bene che glie voglio io!”       

         Anche la breve storia dell’Allunaggio serve solo a confermare quel suo carattere di negazione delle cose troppo reali. Forse è proprio questo il motivo delle negazioni: non poter ammettere che le cose avvengono in modo tanto semplice, quando nella sua vita tutto è stato difficoltoso e doloroso insieme. Siamo all’epoca dell’Apollo 15 e 16, cioè il volo spaziale che portò il primo uomo sulla Luna. Tito Stagno commentava la strabiliante notizia: “Sono allunati! Sì, sono allunati! Un evento che rimarrà nella storia!”. Fernando si alzò “sbuffando” dalla sedia metallica su cui era seduto, la trascinò brevemente con lo stinco e poi, ad alta voce, esordì: “E … pori stupidi ! Ma davero credete che stanno sopre ‘a Luna ? Nun capite proprio gnente ! Quelli stanno a fa ‘che firm in America. Pe’ vedelli da a televisione vordì o che noi stemo sopre ‘a luna o vordì che quelli stanno sopre ‘a Tera. Ma seconno voaddrii, è possibile che ‘a televisione ‘rive fino allassù ?”

            Qualche altra curiosità desidero ricordarla.

            Vi dicevo delle mie saltuarie soste nella “sua officina” per un saluto. Bene, in una di queste soste trovai zio Fernando alle prese con la preparazione di una zappa. Per evitare ammaccature zio Fernando costruiva la zappa saldando due parti, quella con “l’occhio” per il manico con ferro comune e quella che avrebbe costituito la lama in ferro temprato (il trattamento di tempra faceva parte del lavoro). L’onere non era di poco conto e zio Fernando rimase impegnato per tali operazioni fino all’ora di pranzo. Quando il committente venne a ritirare la zappa chiese il costo del lavoro (veramente irrisorio, forse paragonabile al costo di un pacchetto di sigarette, diciamo 2.000 lire) che ritenne elevato. Mise le mani in tasca con un movimento dissenziente della testa (gesto che zio Fernando interpretò come insoddisfazione) e si accinse a pagare. Zio Fernando gli strappò la zappa dalle mani, lo accompagnò fuori dalla “sua officina” con queste parole: “Fino a un momento fa ce voleno 2.000 lire, adesso ce vonno 10.000! Ma da te i’ zappone nun te lo do manco pe’ 50.000! Va’ a fanc… o! E ‘i zappone fattolo fa da chidun’andro!”

            Anche per la realizzazione del cancello di casa mia si verificò una circostanza curiosa. Andai da lui per chiedergli se aveva tempo e soprattutto voglia di realizzarlo, pensavo gli facesse piacere, ma restai interdetto: non dimostrò tanto entusiasmo, come del resto, per qualsiasi altro lavoro. Per qualunque richiesta di lavoro “sbuffava” e “ruminava” come se dovesse affrontare una missione impossibile. Poneva difficoltà di disegno, di misure, di materiale, di mezzi di trasporto, di tempo… di tutto insomma.

            Comunque ci accordammo per recarci ad acquistare il materiale necessario, per rilevare le misure del passo carrabile, per concordare serrature e cardini, per spiegare il disegno. Disse che la cosa era un po’ complicata, perché da solo, aveva difficoltà per gli spostamenti delle parti assemblate; mi fece tante di quelle complicazioni, che pensai quasi di lasciar perdere, ma poi non posi limiti temporali e convenimmo per la realizzazione.

            Passando alla “sua officina” il giorno dopo, lo trovai impegnato nel lavoro, chinato a saldare montanti e traverse che avrebbero costituito l’armatura del cancello. Saldando i ferri a terra, era costretto ad inginocchiarsi ed abbassare la testa per lavorare, ma tale movimento causò la caduta dei suoi occhiali da vista (due vecchie lenti con montatura, tenute posticciamente insieme da una legatura di ferro), che usava durante il lavoro. Questo inconveniente lo costrinse a posare la maschera di saldatura, posare la pinza portaelettrodo, toglier un pesante guanto da saldatore, inforcare gli occhiali da vista, rimettere il guanto, riprendere la pinza portaelettrodo, riprendere la maschera di saldatura, provare l’attacco di saldatura e quindi piegare la testa per saldare: movimento, quest’ultimo, che causò una nuova caduta degli occhiali. Zio Fernando, con qualche imprecazione, ripetette scrupolosamente il cerimoniale già descritto, ma gli occhiali non volevano saperne di restare al loro posto.

            La cosa si verificò per qualche altra volta e la scena era veramente comica: zio Fernando imprecava ed io ridevo a crepapelle. “Ma zi’ Fernà – dissi – un paio di occhiali nuovi costano poche migliaia di lire e ti evitano una enorme perdita di tempo!” Credo che l’osservazione lo ferì perché, immediatamente afferrò un martello e, bofonchiando un “Moriammazzati!”,a martellate ridusse quella parvenza di occhiali in milioni di luccicanti vetrini.

            Il cancello: come finì il cancello? Finì bene. Dopo un paio di giorni dall’inizio dei lavori intesi suonare insistentemente al citofono: “Chi è ?” chiesi. “E’ Fernando, e chi ha da esse? – rispose – i’ cancello è pronto, quanno lo volemo mette sù ?”,Subito, – risposi, sapendo che avrebbe apprezzato – dimme che serve.” “Gnente, serve de venillo a piglià co’ che cosa e portallo quà. Doppo faccio da me!”,Bene, ci vediamo domani alle 9,00 all’officina.”

            La mattina dopo, alle ore 07,00, Fernando venne a svegliarmi e, per paura di far tardi, anticipò l’inizio della posa in opera del cancello che terminò prima di pranzo. Questo cancello ultimato in tre/quattro giorni dura, imperterrito, in perfetto funzionamento da 27 anni!

            Questo era il modo per dimostrare l’affetto, che zio Fernando aveva con le persone che amava: non era per le smancerie, per i complimenti, per i convenevoli; lui era un uomo pratico, poco letterato ma intelligente; guardava più ai fatti che alle parole.

            Zio Fernando morì a 91 anni, il 28 aprile 2005. Aveva visto morire tutti, quasi tutti: il figlio Antonio nel 1943, la prima moglie Giuseppina nel 1944, il padre Angelo nel 1965, la madre Zaira nel 1975, la sorella Elsa nel 1981, il fratello Antonio nel 1986, il cognato Caio nel 1994, la seconda moglie Nicolina e la sorella Ida nel 2000 e ancora la sorella Barbara nel 2003.

            Aveva chiuso, a stagno, la lastra di zinco di tutte le rispettive bare senza mai un momento di commozione.

            Forse dopo questo racconto riuscirete anche ad avere spiegazione del suo carattere, riuscirete a rivisitare la sua figura come si fa con una persona che è stata visibilmente scossa dagli eventi.

            Un’ultima cosa voglio ricordare perché di tanto in tanto la rivivo con tristezza. Alla morte improvvisa di mio padre, avvenuta in ospedale nel corso della notte, fui avvisato del fatto ed informato di dover andare, il mattino successivo, per provvedere alla vestizione della salma e per espletamento delle pratiche amministrative. Mia madre era gravemente malata e non poteva muoversi da casa. Ero molto preoccupato per il da farsi ed avevo l’animo a terra. Nel corso della notte avvisai alcuni parenti più stretti del triste evento e comunicai anche la possibilità di far visita alla salma di mio padre nel pomeriggio del giorno successivo.

            Alle sette del mattino, scendendo da casa di mia madre, trovai zio Fernando che aspettava per venire a farmi compagnia e, soprattutto, perché voleva vedere mio padre in privato. Fui lieto della disponibilità e partimmo.

            Stranamente zio Fernando non fumò per l’intero viaggio, il suo sguardo era perso in chissà cosa, forse ricordi, fatti, circostanze. Non proferì parola né gesto, se non qualche accenno di tosse.      Giunti in ospedale ci recammo alla camera mortuaria e restammo in silenzioso raccoglimento per alcuni minuti. Ricordo che accennai ad un timido pianto, che non fu assolutamente liberatorio, anzi fece crescere l’angoscia che mi pervadeva. Il senso di colpa di non essere stato presente nell’attimo della morte di mio padre mi sconvolgeva: avevo un terribile mal di testa ed una incredibile pesantezza agli arti, quasi dovessi svenire.

            Zio Fernando, con la scusa del bagno, si allontanò lasciandomi solo con mio padre: e finalmente piansi, piansi a dirotto.

            Anche Fernando, quando tornò, aveva gli occhi rossi e lucidi. Anche lui aveva pianto: forse per la prima volta dopo le tante lacrime versate per il piccolo Antonio e per l’amata Giuseppina.

 

Vignanello, li 27 Gennaio 2011 - Continua...