23.02.11 FEBBRAIO 2011 ‘A TIGNA(La Tigna, in lingua italiana) PARTE II ARMANDO
BUZI Armando nasce a Vignanello, in piena Prima Guerra Mondiale e nel corso di un freddissimo mese di dicembre, da Giuseppe (1866 – 1925) e da Bartolomea (Mecuccia) Sabuzzi (1887 – 1956), originaria di Selci (RI). Armando è il quarto di sette figli: Agnese (1909 – 1980), Domenico (1911 – 1924), Gioacchino (1915 – 1986), Armando (1917 – 1994), Elio (1920 – 2006), Angela (1922 – 2008) e Assunta (1925 – 1926). La morte del fratello Domenico nel 1924, del padre Giuseppe nel 1925 e della sorella Assunta nel 1926 producono, all’interno del restante nucleo familiare, un effetto devastante. Il lavoro di Giuseppe, coltivatore diretto benestante, era l’unica fonte di reddito per la famiglia; alla sua morte Mecuccia dovette abbandonare l’agio economico, di cui aveva disposto, e dedicarsi personalmente al mantenimento della cospicua proprietà. I figli, ad eccezione di Agnese votata a Dio, vennero affidati alle cure della cognata convivente Maria Luigia Buzi (1858 – 1938) e Mecuccia, con l’intelligenza e la grinta di uomo, si dedicò completamente al decoroso mantenimento dell’intera famiglia. Poi i lunghi anni appesantiti dal lavoro, rattristati dalla guerra e costellati di sacrifici finirono. I fratelli Buzi aggiunsero le loro energie a quelle sempre vive della madre ed incominciarono ad emergere gli incoraggianti risultati di una fiorente attività agricola, a cui successivamente si dedicarono tutti i maschi della famiglia. Ma torniamo ad Armando, a zio Armando: zio acquisito, in quanto fratello di Angela, madre di mia moglie Carla. Armando, raccontava mia suocera, era sempre stato un soggetto introverso: chiuso, silenzioso, dai modi un po’ scorbutici, quasi intrattabile. Il tono abituale di voce ed il singolare modo di relazionarsi agli altri, davano spesso l’idea di persona mal disposta, stizzosa, irremovibile. In realtà, zio Armando era un timido ed aveva escogitato questo suo modo misantropico di relazione, per nascondere il reale suo carattere. Forse gli mancavano i modi, ma non le attenzioni. Molto spesso, tornando dalla campagna, passava a trovarmi, non per conversare, ma per recare in dono genuini prodotti del suo orto: uova fresche di giornata ancora calde, frutta genuina e squisita: “Tié, – diceva quando andavo ad aprigli il cancello – magnéte du’ vaca ‘e persica e ‘na cima ‘e broccoli che, quest’anno, so’ venuti speciali. Dentro i’ secchietto – che mi indicava con la mano – ce so’ du’ ova fresche pe’ ‘e figlie. Ciao!” Certamente ci saremmo rivisti, a breve, per una analoga circostanza! Mai dire a zio Armando: “ Zi’ Arma’, ciavessi du’ piante ‘e mazzocchi pe’ verdura?”, disponevi di mazzocchi, o simili, fino ad averne nausea! Zio Armando era così, non conosceva limiti nelle cose, come non conosceva limiti nel suo modo di dire (e soprattutto di fare), in qualsiasi altro campo. Usava espressioni “curiose” come: “farfallone” (poco assennato), “passa da ‘na parte” (poco svelto); le usava senza malizia, in modo benevolo ed anche in forma di saluto. Queste espressioni sono rimaste nella dialettica comune come espressione di “presa in giro”, ma non era questo l’intento a cui mirava Armando. Armando aveva una forza muscolare spaventosa (ed aveva piacere di dimostrarla), trasportava pesi incredibili; era uno dei “portantini” della Macchina di San Biagio e impersonava il “Cireneo” (portando la croce) nel corso della Processione del Venerdì Santo.
Spesso mio suocero, Olimpiero Chiricozzi (1912 – 1976), lo assumeva saltuariamente come operaio per scaricare sacchi di concime, cemento o calce. Bene, zio Armando stancava tutti gli altri operai, e guai a dirgli di rallentare, montava su tutte le furie: “E’ più pazzo chi ve la paghe ‘a giornata ! Io ve caccéo via da tutti!”. E riprendeva a correre trasportando due sacchi per volta. Il carattere di zio Armando era veramente particolare: era sufficiente obiettare a qualsivoglia sua affermazione perché “prendesse immediatamente d’aceto”, come usava dire chi lo conosceva bene ed assiduamente lo frequentava. In famiglia, da piccolo, per fargli fare cose senza scontrarsi con il suo già scontroso carattere, si usava il metodo di mettere in dubbio le sue capacità. Raccontava mia suocera Angela che nel corso della cena, quando terminava il vino portato in tavola, succedeva che zio Gioacchino, fratello più grande, anziché chiedere ad Armando di recarsi in cantina per riempire nuovamente il boccale (richiesta che sarebbe stata disattesa proprio per la non accettazione di ordini), si rivolgeva alla madre ed agli altri commensali con questa vaga affermazione: “Volete scommette che Armando è bono a ‘nna da ‘a cantina all’oscuro, aprì a cavola de ‘a botte, jempì i’ boccale de vino e riportallo su senza fallo cascà manco ‘na goccia?” “Sà comme ce credo, - rispondeva l’altro fratello Elio che aveva capito l’antifona – io dico che nun ce la fà manco si ce và co’ ‘a cannella!”. Si attendeva per un po’, poi zio Armando, cercando di non farsi notare, prendeva il boccale, andava in cantina, lo riempiva di vino e risaliva. Poneva il boccale sulla tavola e guardando Elio: “Ha’ visto si sò bono ? – esordiva – Quest’addra vorda vedemo si sì bono tu!”. Risata generale: Armando era stato “buggerato” ancora una volta! Diciamo anche che Armando era un po’ ingenuo, e questo a causa della disponibilità dimostrata dall’intera famiglia Buzi: Mecuccia, nonostante la sua difficile situazione familiare per i motivi già citati, non lesinava mai aiuti a chi bussava alla sua porta (era un periodo nel quale molte persone non avevano di che mangiare!). Questo aveva contribuito a far crescere i figli con una visione delle cose poco utilitaristica: vivevano in modo decoroso, avevano discreta disponibilità economica e, pertanto, mancava in tutti quell’assillante preoccupazione per la sopravvivenza. Quando i tedeschi lasciarono Vignanello, nel triste luglio del 1944, abbandonarono un autocarro pieno di ogni ben di Dio. Quelle derrate alimentari vennero assaltate dalla popolazione affamata e, in breve tempo, esaurite. Bene, zio Armando che giunse tra i primi sul posto, non pensò ad accaparrarsi il mangiare che riteneva superfluo per la sua famiglia, si accontentò di un “nastro” di proiettili per mitragliatrice, che portò in casa e distese sul tavolo della cucina come orgoglioso bottino con il possibile pericolo di “far passare per le armi” tutti i familiari. Nel 1948 Armando si unisce in matrimonio con Ines Pilli. Nel 1949 nasce Giuseppe, nel 1952 nasce Angela (morta, a seguito di danno celebrale causato dal parto, nel 1998) e nel 1961 nasce Mecuccia. Ines ha due fratelli Ottavio (1922 – 1996) e Pietro (1923 – 1992), entrambi celibi, che vivranno con lei ed Armando fino alla morte. Pietro e Ottavio contribuirono all’economia della famiglia coltivando ed attendendo ai normali lavori agricoli necessari ai loro terreni ed a quelli che Armando aveva ereditato dalla madre Mecuccia. Armando non era frequentatore di Bar né coltivava particolari amicizie. Frequentava il Bottegone ed i suoi amici erano gli avventori dello stesso Circolo. Non giocava a carte né ad altri giochi consueti, gradiva assistere alle partite di biliardo o cimentarsi in interminabili discussioni riguardanti la campagna, le varie colture, i diversi metodi di coltivazione, ma era sempre scettico su ogni innovazione adottata: la cantina sociale, l’irrigazione delle piante di nocciolo, la raccolta meccanizzata del frutto, le macchine spazzatrici, irroratrici, concimatrici. Avrebbe tranquillamente riadottato il vecchio carretto per il trasporto, magari con l’uso degli ormai trapassati asini (zio Armando riconosceva a distanza il “raglio” di tutti gli asini di Sant’Angelo!) La sua andatura lievemente barcollante, causata da una seria caduta di gioventù, nella quale riportò un brutto trauma cranico, era familiare ed inconfondibile, come inconfondibile era quel suo imperioso tono di voce da farlo sembrare perennemente “incavolato” (per usare un termine volutamente non scurrile!). Una grande passione la nutriva per il calcio, non il calcio consumistico della serie A (teneva per Lazio e Roma indistintamente) ma per quello dilettantistico praticato dalla squadra del cuore: il G.S. Vignanello di cui era sostenitore ed assiduo spettatore in tutte le partite, casalinghe o esterne. Questa sua viscerale passione gli procurò serie conseguenze giudiziarie delle quali gradirei raccontare.
Nella stagione calcistica 1965/1966, il G.S. Vignanello militava
nel Campionato di Calcio Dilettanti di Terza Categoria (girone del
Viterbese). Il G.S. Vignanello aveva una squadra molto forte e l’unica
valida rivale era Le due squadre si erano fronteggiate in precedenti campionati e l’agonismo era tale da trasformare ogni incontro in un agguerrito scontro calcistico. Le polemiche, seguite alle precedenti partite, costituivano una pericolosa circostanza e l’animo delle due tifoserie era accesissimo. Nel girone d’andata ad Orte la partita si era conclusa con la vittoria dei padroni di casa, favoriti sfacciatamente da un arbitraggio di parte. In ogni caso, nel corso del campionato le due squadre collezionarono diversi successi e procedevano appaiate in classifica. L’incontro di ritorno, a Vignanello, doveva decretare quasi certamente il vincitore del Campionato con conseguente passaggio di categoria. Alla domenica dell’incontro una moltitudine di persone si riversò nei limitati spazi predisposti per il pubblico: erano le nutrite tifoserie dei contendenti, che avrebbero sostenuto i loro beniamini nel corso della partita. Il clima, come previsto, non era affatto tranquillo e le Forze dell’Ordine erano state potenziate con l’arrivo di altri Carabinieri delle vicine Stazioni. Già prima dell’inizio si era verificato qualche scontro verbale tra le due tifoserie, ma tutto era tornato normale in breve tempo. Poi l’incontro ebbe inizio ed i calciatori non riappacificarono affatto gli animi. Ci furono scontri pesanti da entrambe le parti e le reazioni dei tifosi seguirono lo stesso copione. Alcuni accaniti sostenitori del Vignanello si avvicinarono, con fare deciso, nella zona occupata dai tifosi ortani, più per consigliare un abbassamento dei toni che per incutere timore e con l’unico intento di far tornare la calma in campo e tra gli spettatori. A queste persone si aggregò Armando che non ebbe sicuramente modi diplomatici per rappresentare l’intenzione voluta, anzi con quel suo modo perentorio di intimare la calma, se ne uscì con un: “Mo si nun la smettete, piglio un tortore e… i’ ppezzo più grosso è l’orecchia!”. Alcuni tifosi contrapposti raccolsero quel modo di dire come un palese invito alla “zuffa” e circondarono Armando, il quale, per niente impaurito, aggiunse: “Levo un passone da ‘na vite e ve manno a casa a strascinoni!”. Così dicendo divelse un robusto “velletrano” da un filare di viti vicino e lo agitò alto, a scopo intimidatorio. Subito quattro o cinque persone malintenzionate gli si buttarono addosso spintonandolo minacciosamente, qualcuno gli mise le mani addosso e Armando non potè far altro che difendersi: quel “velletrano”, che aveva alzato per intimorire, dovette usarlo per colpire. Uno degli ortani, che avevano aggredito Armando, fu da questi, colpito con violenza e stramazzò in terra. Si scatenò un parapiglia generale tra le due fazioni, una rissa infernale che venne sedata per l’intervento delle Forze dell’Ordine. Il ferito, privo di sensi, venne soccorso e trasferito in Ospedale e il clima arroventato consigliò la sospensione dell’incontro. In breve tempo tutte le persone, che avevano causato l’evento, scomparvero: chi per i campi, chi tra la mischia, e inutili furono le ricerche dell’autore dell’aggressione.
Zio Armando aveva saltato un piccolo dirupo che era nelle
vicinanze del luogo dello scontro e si era dato “per campi”. Aveva
fatto un largo giro, aveva atteso per un po’ di tempo e poi,
percorrendo un piccolo viottolo di campagna, si era diretto verso il
paese. Immettendosi sulla strada principale, venne fermato da una
pattuglia di Carabinieri che, allontanatasi dal campo sportivo, stava
effettuando dei controlli a seguito di quanto avvenuto. “Lei da dove viene?” chiese uno dei carabinieri. “Steo
a quaggiù – rispose Armando – ero
‘nnato a fa’ un bisogno”. Lo disse in modo poco convincente e
soprattutto lo disse, rimanendo appoggiato ad un “velletrano”
intriso di sangue ancora fresco. Il carabiniere chiese ancora: “Lei
come si chiama?” Armando scattò quasi sull’attenti e rispose: “Buzi
Armando! C’è checcosa ?”, “Signor
Buzi – replicò il milite – salga
in auto e venga con noi in caserma.” In caserma Armando ammise le sue colpe, ricostruì la dinamica dei fatti e spiegò il perché della sua eccessiva reazione, disse di aver temuto per l’incolumità, disse che era andato per calmare gli animi, che potevano testimoniarlo tante altre persone, ma questo non riuscì a salvarlo dalla denuncia di “gravi lesioni personali” e quindi da un processo penale. Il processo si celebrò qualche mese più tardi, dopo la completa guarigione della “parte lesa”. L’avvocato del denunciante descrisse Armando come una persona poco sociale, un attaccabrighe, un litigioso. Lo accusò di aver infierito sul suo assistito anche dopo la caduta, lo additò come persona poco responsabile a causa di quella che definì “fuga dopo il malfatto”. Armando fremeva, non riusciva ad accettare quelle accuse infamanti e false; aveva colpito una persona con un legno, ma non era un vile, un litigioso, un irresponsabile. Molte testimonianze a suo favore precisarono che la fuga fu causata dalla necessità di salvaguardia della persona, che non c’erano intenzioni di litigio, che si voleva “smorzare” un clima arroventato. Tutte queste persone solidali avevano ridato “spirito” ad Armando e forse anche la speranza di un esito positivo nel verdetto.
“In nome del popolo
italiano – iniziò il giudice al momento della sentenza – Questa
Corte, a norma (con il seguito
di articoli, commi, codici e di quant’altro) condanna il
sig. Buzi Armando alla pena di mesi quattro, con il beneficio delle
attenuanti e della condizionale, ed al pagamento della somma di (non
ricordo), diciamo Lire 900.000 per il risarcimento dei danni causati
alla controparte. Così si
decide e così si ordina.” C’è da dire, però, che nel corso della lettura della sentenza la “parte lesa” dissentiva vistosamente, agitando la testa. Al riconoscimento delle attenuanti e alla quantificazione dell’indennizzo, il “leso” accennò con la mano ad un gesto poco “diplomatico” in direzione di Armando.
Zio Armando, che aveva ascoltato e soprattutto sopportato troppo,
non potendo più trattenersi, si alzò in piedi e rivolgendosi
all’avversario sbottò: “Ah,
ancò scorli? Nun te so’ bastate quelle che ha’ preso? Scappa fora
che te do ‘i resto!”
“Signor Giudice, signor
Giudice – reagì prontamente l’avvocato del danneggiato – il
Buzi minaccia!”, “Ah, il Buzi minaccia? – intervenne,
infastidito il Giudice – Bene!
Allora si condanna il Buzi a sei mesi di condizionale e Lire 1.200.000
di risarcimento. Così si decide e così si ordina.” Armando morì, improvvisamente il 10 Maggio 1994. Vignanello, li 23 febbraio 2011 - Continua... |