24.10.12
 

Umberto Stefani

 

 

IN FUGA NELLA STEPPA RUSSA

14 – 23 dicembre 1942

I miei ricordi di guerra

 

                                                                                     Tu pensi  essere l’artefice

                                                                                     del tuo destino.

                                                                                     Io penso… che esso

                                                                                     sia già scritto in qualche

                                                                                     parte dell’universo

 

Capitolo 1°

Da Dubovicev a Kraisnia

 

   Perché sono fuggito? Chi non mi avrebbe imitato in simili occasioni.

   Giorno 12 dicembre 1942. Dal Don, dopo ben due mesi di eccessiva calma, gli eserciti russi lanciano al cielo l’urlo caratteristico... “La voce di Stalin”, e muovono all’attacco  della mia divisione, con ben 9 equivalenti reparti corazzati.

   Due giorni di aspra lotta, giorni di alterne vicende; posizioni che si perdono e riprendono con numerose perdite da ambo le parti – “La gloria del 90° fanteria a quota 192”:

Non tratterò particolarmente le fasi della lotta, ma sorvolo venendo alla sera del 14.

 

Lascio il combattimento per ordine del Tenente (essendo morto il Capitano) e tra il crepitio delle mitragliatrici ed il rombo della terribile Katiuscia, attraverso, correndo sulla neve, tutto il caposaldo Milano, dove i Russi picchiavano maggiormente. Si era a corto di munizioni leggere e non c’era modo di un rapido rifornimento – fasi di corpo a corpo sanguinosissimi e cruenti. Il Tenente disse: “Vai Stefani, vai al comando di reggimento, fai caricare una autocarretta di munizioni per la compagnia e resta per i successivi carichi. A questo punto è da ricordare che la fanteria italiana era dotata di fucili Mod. 91 della prima guerra mondiale mentre i Russi, come arma leggera, un fucile mitragliatore a serbatoio di 70 colpi.

Con palese rincrescimento anche perché da solo dovevo attraversare luoghi battuti dall’artiglieria russa, lascio la postazione.

Levo una fervida preghiera alla Madonna e via di corsa al Comando.

Sono solo, il cuore mi batte forte, forte, mentre nella mente mille pensieri diversi si affacciano: pensavo alla cara mamma che ho lasciato nel pianto e nel dolore della separazione, e con quella visione proseguo.

Sono già distante dalla linea ed ancora nessuna sorpresa, ma non poteva mancare.  Al momento stesso di lasciare il caposaldo, un reparto russo inferocito ed ubriaco d’alcool ha piegato a destra e tenta un accerchiamento della compagnia. Basterebbe ben poco, penso io, due mitragliatrici metterebbero in fuga quegli esseri ridotti a cenci umani.

   Attraverso, correndo ancora, un boschetto. Qui trovo  un carro armato leggero della divisione Celere che già aveva ripiegato. Salgo sulla torretta e guardo dentro. Scorgo il carrista che ha una gamba fracassata da una esplosione e già semi assiderato, si lamenta. Gli apporto le prime cure e gli propongo di agire immediatamente contro il reparto avanzante. Ha fortunatamente salve le mani. Lo accomodo sul seggiolino e gli dico di spostare il carro verso la direzione della turba avanzante. FUOCO. Cantano i loro canti di morte e di vittoria le due mitragliatrici facendo una strage di bolscevichi. Sul volto del mio compagno si attenua il sorriso della vendetta. Cenci, brandelli sono ridotti i seguaci del dittatore rosso.  Sbandati e confusi dall’alcool, ripiegano.

   Esultante di gioia abbraccio il mio amico che già, per il sangue perduto vede cader per sempre la speranza di una salvezza. Non riesco a descrivere la scena che ne seguì per non piangere ancora di commozione, come allora. Povero ragazzo, aveva voluto vendicare le sue ferite, ma è morto serenamente.

Già mi avvicino al comando per portare a termine la missione, dopo aver salvato la compagnia da sicuro accerchiamento.

“Signor Colonnello, sono gìà in ritardo: occorrono munizioni alla compagnia”.

Vado alla polveriera, assisto al carico quando il Maresciallo addetto mi dice di rimanere capoposto, per il fatto che il precedente era morto colpito da schegge di artiglieria.    

Accetto tale compito pensando al modo di ritornare in linea, perché il nemico, sempre più incalzante era superiore di ben dieci volte per numero e mezzi, e la compagnia aveva bisogno di uomini.

   Sono le ore 16: una batteria di 149 prolungati tedesca spara dal comando verso il Don. Dopo ben poco, azione opposta di controbatteria. Rifugiato nel corpo di guardia, prego per essere preservato ancora da ogni pericolo. Il Maresciallo mi ordina di trovare un rifugio più sicuro nel caso dovesse continuare il fuoco.

“Signor Maresciallo non lascio la polveriera finchè vi è ombra di munizioni”

Continuano  le autocarrette a prelevare munizioni per la truppa e dalla S.Barbara sempre diminuiscono.

Ore 18, continua il fuoco di artiglieria. Un colpo esplode a circa 4 metri dal rifugio,fa crollare le mal sicure assi contenenti ben poca terra. Siamo tutti pronti a cambiare il ricovero quando una tremenda esplosione ci avverte che la polveriera era saltata… MALEDETTI!!!

La sussistenza incendiata, tutto il paese è un rogo ardente, le mitragliatrici sparano a zero, tutti fuggono.

Armati e con tre coperte sulle spalle si fugge alla volta di Kraisnia.

Dopo appena un chilometro troviamo due fanti feriti sulla strada. Si soccorrono e con loro sulle spalle proseguiamo il cammino se non che, ecco sopraggiungere  due automezzi blindati tedeschi. Chiediamo loro di accogliere almeno i feriti, ma questi, con mal garbo e con percosse, ci respingono fra la neve.

CHE DIO LI STRAMALEDICA.

Noi proseguiamo a piedi, ma ad un tratto, un colpo d’arma da fuoco ci ferma.

Erano due Russi fuggiti dalla prigionia. Senza troppe complicazioni li catturiamo, li conduciamo con noi per consegnarli alle autorità competenti.

Monotono è il rimanente del tragitto che dopo circa tre quarti d’ora ci conduce al Comando di Divisione. Qui tutto è in movimento; lo stesso comando aveva trasferito la sua sede altrove. Rimanevano i vettovagliamenti ed i mezzi di trasporto.

Passammo la notte in un baraccone di legno dei Carabinieri. Siamo appena 64 uomini che vengono passati in rivista di munizionamento da tenente dei Granatieri.

Si fa giorno. Un Capitano ci raccoglie con il compito di condurci ad Orobinkij a consolidare la linea difensiva.

 

 

Capitolo 2°

Da Kraisnia a Orobinskij

 

   E’ l’alba, gelida e nevosa del 18 dicembre. La tormenta rende più difficile il cammino verso la nuova linea.

Con due coperte, armati e con scarse munizioni, la breve colonna si incammina verso il nemico. Ho un terribile mal di piedi. Si annuncia quello che sarà il sicuro congelamento.

Lentamente si avanza incontrando automezzi stracarichi di uomini che ritornano dal fronte con l’ordine di ripiegamento.

Ai margini della strada relitti di macchine, indumenti, munizioni abbandonati. Ci si rifornisce anche di viveri lasciati a casse complete.

Ci avviciniamo alla meta. Una squadriglia di apparecchi ci costringe a sparpagliarci per rendere meno efficace il mitragliamento. Sempre in ordine sparso proseguiamo.

Molti, ma molti pezzi di artiglieria ripiegano, segno evidente che i combattimenti al fronte hanno preso una brutta piega. Il Capitano, con precisi ordini non intende ritirarsi, conducendoci a sicura morte.

Colpi di mortaio già ci raggiungono, apparecchi tedeschi, pilotati da Italiani (come ci disse un pilota ferito e con l’aereo distrutto in volo) fanno un tremendo e pauroso carosello scaricando continuamente bombe sul nemico al di qua del Don. 

 

I nostri uomini terranno ancora le linee?

Giunti in paese è un vero scompiglio. Italiani e Tedeschi che fuggono. Noto un fatto straordinariamente inverosimile. Tedeschi che negano il passaggio sulle loro macchine; alterchi e litigi.

Questi sono gli alleati che Mussolini ci ha regalato; povero fascismo, non annovera più tra le sue file neanche i volontari del battaglione “M”.

Noi, perduto il collegamento con il Capitano, siamo costretti a proseguire la precipitosa fuga generale.

Automezzi prendono la via del ritorno carichi di uomini e rimorchianti pezzi anticarro, di grosso e medio calibro.

Una scappatina alla sussistenza non farebbe male. E’ un vero disastro: fusti di vino e di cognac squarciati, soldati che bevono e riempiono le loro borracce. Una scia di sigarette, gallette, scatolette ci conduce alla baracca dei viveri. Un parapiglia da non dire.

Rapidamente si riempie il tascapane di scatolette, burro, miele; pane e sigarette contribuiranno a rendere men dura la via del ritorno.

Furtivamente si compie tale operazione e… via verso la steppa infinita.

Una lunga colonna di esseri umani alla ricerca della salvezza dall’inferno della guerra.

 

Meta sconosciuta ma sempre più lontana dalle linee di fuoco. Così per giorni. Durante il tragitto ci trovammo in un agglomerato di case con solo donne all’interno che ci accolsero con festosi abbracci (questo a dimostrazione di quanto i soldati italiani erano stati gentili nei riguardi della popolazione).

Una ragazza si prese cura dei miei piedi già in avanzato stato di congelamento, cospargendoli con un unguento di loro fabbricazione. Ma tolte le scarpe i piedi si gonfiarono al punto da non essere più contenuti nelle calzature non proprio di cuoio.

Fu costretta ad avvolgerli in abbondanti fasciature che permettessero di camminare senza problemi.

 

Il dolore diminuiva, ma la fatica a trascinarmi sulla neve era tanta.

Riprendemmo il cammino perchè i Russi avanzavano, la strada fatta era tanta ed io ero sempre più stanco ed il dolore ai piedi riprese il sopravvento. 

Da qui i miei ricordi si fermano per ritornare all’interno di un Ospedale degli Alpini a Dnepropretovsk, dove, con tutta urgenza fui sottoposto a terapia di blocco della cancrena.

Ho tanto pensato a cosa può essere avvenuto ed unica risposta che potevo darmi era di essere svenuto per il dolore ed una troika di passaggio, vedendo che ero vivo, mi abbia raccolto e trasportato in Ospedale. E’ la vigilia di Natale: i medici intervengono sui miei piedi, togliendo quanto era congelato e riportando al vivo la carne martoriata.

 

Appena terminato, un potente cannoneggiamento, spinge la struttura medica al trasferimento dei ricoverati, in territorio più sicuro.

Viene scelta la città di Leopoli in Polonia, in altro ospedale, questa volta gestito da medici tedeschi.

Siamo al 4 gennaio 1943. Le cure sono sommarie. Da notare solo che di notte, una suora polacca, di nascosto faceva il giro della camerata e riproponeva le fasciature con unguenti freschi. Questo ha permesso una più rapida guarigione.

Pochi giorni e il ritorno in Italia qui a Salsomaggiore per una quarantena ed il 3 febbraio finalmente a casa.    

 

                                                                                        F i n e

   

Salsomaggiore Terme-28 genn.1943

                                               

P.S. Le foto inserite non riguardano la mia persona ma di situazioni realmente accadute.

 

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