06.01.06 Befana,
Befana, Questa breve filastrocca era l’invito-preghiera che noi bambini negli anni Quaranta e Cinquanta rivolgevamo alla buona vecchietta, quasi tutte le sere e più volte, davanti all’ampio camino della cucina, in cui ardevano scoppiettando grandi ciocchi. Si cominciava a chiamà ‘a Bbefana, alcuni giorni prima del fatidico 6 gennaio. I bambini piccoli, aiutati dai più grandi, cantilenavano la filastrocca una, due, tre volte o fino a quando uno dei grandi della famiglia, da dietro le spalle dei cantilenanti, non lanciava verso il soffitto qualche manciata di nocciole, noci, mandorle, caramelle, cioccolatini e, magari, qualche mandarino. Tutte cose che ricadendo
a terra facevano un gran rumore, attirando l’attenzione e lo sguardo
meravigliato dei bambini che, prima di raccogliere il tutto, si
spingevano con la testolina fin sotto l’imboccatura della nera cappa
del camino, per dire: Grazie Befà! Grazie Befà!! Erano di solito le
donne: nonne, zie, sorelle maggiori, comari o vicine che facevano
Si coprivano la faccia con un velo, si vestivano con abiti smessi da tempo in modo che i bambini non li riconoscessero, si mettevano sulle spalle un sacco con dentro qualcosa e, spesso accompagnate dal suono di un campanellino che portavano in mano, verso l’ora di cena o quando questa era appena terminata, bussavano alla porta. I bambini, ancora a tavola, o già assonnati e pronti per andare a letto, si erano già messi in stato di all’erta, quando in lontananza avevano sentito il suono del campanellino. Al primo colpo bussato alla porta (non c’erano citofoni e campanelli) correvano a rannicchiarsi tra le gambe e le braccia del babbo, della mamma e, quando c’era, di qualche nonno, in cerca di protezione. Aperta la porta,
finalmente entrava I volti dei bambini,
diventati rossi rossi, si atteggiavano un istante all’altro a: paura,
gioia, ansia, pianto, emozione. Domandava innanzitutto se erano stati buoni, obbedienti e bravi a scuola. Le risposte, non sempre sincere, erano un po’ esitanti ma sempre affermative ed emesse con un filo di voce che usciva da una gola stretta dalla paura e spesso dal pianto. La vecchietta chiedeva infine ai bambini cosa volessero in regalo e poi salutava tutti: chi con una carezza, chi con una pacca sulla spalla, chi con un pizzicotto sulla guancia, chi con uno scappellotto e chi con un marameo, mimato poggiando il pollice di una mano sulla punta del naso e agitando in successione le altre quattro dita della mano stessa. Dopo aver compiuto
qualche altro giro intorno al tavolo della cucina, ballonzolando al
suono del suo campanellino, Invece, qualche minuto più tardi, tolti gli abiti da scena, rientrava, ignara e trasecolante, nella stessa cucina, con una banale scusa. Subito le correvano incontro i bambini, ormai tranquilli e con le bocche piene, per informarla fin nei minimi particolari della visita della Befana e per farle vedere tutto ciò che lei aveva lasciato in regalo. I’ Spione Altra figura da non dimenticare, per quanto riguarda quegli anni, era i’ Spione. A Vignanello e, per quanto ne so, soltanto qui da noi appunto a Vignanello, egli era la versione maschile della Befana, potremmo anche quasi azzardare che fosse il suo sposo. Da molti anni però questo personaggio è caduto nel dimenticatoio, non visita più le case e, quasi, non se ne parla più. La visita dello Spione era sempre molto movimentata. I bambini ne avevano più paura perchè rispetto alla Befana, era più brusco nei movimenti e rumoroso nell’entrare e nello spostarsi in giro per la cucina. Lasciava sempre pochi doni e cercava ripetutamente di strappare dalle braccia dei genitori e dei nonni i bambini, per portarli via dentro il suo sacco più grosso e più sporco di carbone, di quello della Befana. Ricordo ancora una visita dello Spione in casa mia. Avevamo appena finito di cenare, stavamo tutti intorno al fuoco del camino, quando si sentì, giù dalla strada il suono non di un campanello, ma di un campano, di quelli che i pecorari mettevano al collo dell’ariete più grosso del gregge. Il suono si avvicinava e dopo un po’ fu vicinissimo: proveniva dal portone che stava in fondo alla rampa di scale che conduceva alla porta di casa nostra. Essendo i gradini della scalinata, di legno, lascio immaginare il fracasso che fece lo Spione per giungere a bussare alla porta di casa, che fu ripetutamente percossa da potenti cazzotti. Entrato in cucina, si muoveva come un indemoniato. Non ricordo con precisione il suo abbigliamento, ma mi fece molta paura. Siccome questa visita non era stata preannunciata neppure ai grandi, fece un po’ di paura anche a mia sorella che ormai non credeva più alla Befana, essendo cinque anni più grande di me. La visita dello Spione fu breve, ma movimentata. Tentò ripetutamente di strapparci dalle braccia dei genitori, ma riuscito vano ogni tentativo, si calmò, ci lasciò sul tavolo due manciate di mandorle e di castagne secche (‘e mosciarelle), due o tre melegrane (‘e mellagranate) e, come se ne era venuto, così altrettanto rumorosamente se ne andò scendendo di corsa le scale. L’ho scoperto anni dopo: lo Spione era stata una mia zia che, giunta in fondo alle scale, si era tolta l’abbigliamento finto ed era risalita da noi per chiedere a mia madre un po’ di lievito per fare il pane il giorno successivo. L’albero della Befana Insomma tra chiamare Già prima di
mezzogiorno e fino a tutto il pomeriggio, le strade e i vicoli erano
percorsi da uomini che tornando dalla campagna, portavano a casa
l’albero della Befana, o sulle spalle, o legato al basto dell’asino
o sul carretto. Era un bel ramo o una giovane pianta d’olòro,
d’irgio, o de nfraolòne
‘er diavolo (rispettivamente: d’alloro, di elce, o di fragoloni
del diavolo, come viene chiamato da noi il corbezzolo). Questi rami, la
sera dopo cena, uno in ogni casa in cui c’erano bambini che ancora
credevano alla Befana, venivano legati ad una gamba del tavolino della
cucina o, quando c’era, della saletta, affinchè L’albero della Befana, raramente raggiungeva due metri di altezza, ma per noi bambini, allora sembrava più alto degli elci del Molesino. Ricordo ancora perfettamente un albero della Befana che mi portò in casa un mio cugino un po’ più grande di me (non più in età da credere alla Befana), quando nei primi anni ’40, mio padre stava sotto le armi: era un ramo di elce che mio cugino riuscì a fatica a portar su per le scale ed a far entrare dalla porta di casa. Legato ad una gamba del tavolino sfiorava il soffitto. Da grande ho misurato per tutt’altri motivi l’altezza del soffitto della saletta: non raggiungeva i due metri e mezzo. Le ore del giorno della vigilia, per noi ragazzi, non passavano mai. Tra giochi, chiacchierate con i compagni seduti sugli scalini del sagrato della chiesa, un po’ di corse tra i vicoli del Casalino e delle Scaricate, e tante visite nella case di ciascuno di noi per vedere e confrontare gli alberi, si arrivava al tramonto e al suono dell’Ave Maria. Allora tutti a casa a parlare, a immaginare e ad attendere con trepidazione, una possibile ulteriore visita della Befana. Si cenava più presto del solito, la mamma sparecchiava e si restava ancora un poco a parlare intorno al fuoco del camino. Qualche volta c’era un’ultima visita di qualche Befana ritardataria. C’erano allora le ultime promesse, gli ultimi momenti di trepidazione, e le precisazioni finali riguardanti i regali. Quando i bambini erano sul punto di essere vinti dal sonno, la mamma andava in camera a preparare il letto e se faceva freddo infilava sotto le coperte la borsa dell’acqua calda o passava tra le lenzuola lo scaldaletto. Ricordo ciò che diceva la mia mamma quando tornava in cucina, ma credo che anche le altre mamme facevano la stessa cosa. Se non proprio le stesse parole, credo che il significato di ciò che dicevano era lo stesso per tutte: Mi sono affacciata alla finestra ed ho visto passare una befana con un
sacco pieno pieno sulle spalle. Mentre camminava diceva: Son le sette, son le sette, Su su, tutti a letto che se passa Allora il babbo metteva
sul fuoco alcuni pezzi di legna, prendeva dalla credenza a vetri la
bottiglia di acquavite, ne riempiva un bel bicchierino e, dopo averlo
messo al centro del tavolino, si andava tutti a letto. I bambini dopo
qualche minuto si addormentavano e, subito dopo, si alzavano ed
entravano in azione Appendevano ai rami: caramelle, mandarini, cioccolatini, ciambelle, calze piene di dolcetti vari e qualche cartoccetto con dentro alcuni pezzi di carbone, quello del camino, per far capire ai bambini che qualcosa nel loro comportamento non funzionava a dovere. Per ultimo, in bella vista, appendevano ai rami più robusti o poggiavano sul tavolo i regali: bambole, trombette, tamburelli, piccoli fucili di latta, giocattoli con la carica a molla, cavallucci di cartapesta attaccati a carrettini di legno, servizietti da cucina, bambolotti, pistole “a ditalini”, modellini di aerei da guerra e carri armati. Va da sé che questa era tutta la gamma dei regali di allora disponibili sul mercato, ma sotto ad ogni singolo albero c’era solo qualcuno di questi, al massimo due per ogni bambino della famiglia. Nelle prime ore del mattino, quando i bambini cominciavano a svegliarsi, era tutto un rincorrersi di grida di meraviglia e scoppietti di “caricatuccie”, le munizioni di fucili e pistole, da una casa all’altra e da vicolo a vicolo di tutto il vicinato. Non sto a riferire, anche perchè sarebbe estremamente difficile, ciò che i bambini dicevano, o a descrivere le espressioni dei loro volti, ancora assonnati, nel trovarsi davanti all’albero della Befana, ed ai regali ricevuti. Meraviglia, gioia ed eccitazione li confondevano e lì per lì non sapevano dove guardare, cosa fare o cosa prendere per prima: toccavano un giocattolo, sbucciavano un mandarino, mordevano una ciambella, scartavano una caramella. Dopo i primi momenti di incertezza e di titubanza, la scena cambiava. Ciascuno, anche se la scelta era limitata, si appartava con il giocattolo preferito e per un po’ si dedicava unicamente ad esso. Va detto che sovente il regalo preferito era lo stesso, ma proprio quello, dello scorso anno, perchè c’era l’abitudine in gran parte delle famiglie, per chiari motivi economici, di far portare via dalla Befana, un giocattolo, il più costoso e bello, subito dopo qualche giorno dall’Epifania, nascondendolo per l’intero anno in casa di qualche amico o parente, per rimetterlo, ancora quasi nuovo, sotto l’albero, l’anno successivo. Tra giochi in casa, visite reciproche nelle case del vicinato, giochi per strada, in piazza e sulle scalinate delle case e dei vicoli, trascorreva la mattinata, fino all’ora di pranzo. Il Bacio del Bambinello Altri giochi in casa dei nonni nel pomeriggio e verso l’imbrunire, tutti in chiesa. C’era la funzione con il tradizionale Bacio del Bambinello, dopo che era stato tolto dal Presepio che doveva essere disfatto. Al termine della funzione religiosa, l’abate don Venturino Bracci, sempre un po’ burbero e severe, almeno dalle apparenze esteriori, sollevava con dolcezza il Bambinello dalla culla e lo mostrava ai fedeli che, in fila, ma non troppo, specialmente noi bambini, tutti baciavano il Bambinello, sfiorando le fasce all’altezza dei piedi. Durante questa cerimonia, alquanto solenne e silenziosa, gli unici che si sentivano nella chiesa affollata erano gli spari, in verità piuttosto fiacchi, dei fucili e delle pistole di noi bambini. Stranamente, per quel giorno, l’Abate tollerava la nostra esuberanza e il chiasso che facevano e non ci richiamava per farci stare in silenzio, come altre volte faceva, durante funzioni o cerimonie religiose. Terminato il pomeriggio e rientrati in casa, si giocava ancora un po’ con i regali ricevuti, alcuni dei quali già non del tutto funzionanti, poi la cena e, verso le otto a letto, perchè il mattino seguente si tornava a scuola. A volte c’era da completare qualche lavoretto scolastico, rimandato di giorno in giorno per tutto il periodo di vacanze, ma ormai non più rinviabile. Quello che di solito restava da eseguire era sempre il canonico tema “Come ho trascorso le vacanze natalizie”. Si apparecchiava allora la tavola di: carta, penna e calamaio. Sì certo, allora queste tre cose si usavano alla lettera e non per modo di dire. Un’ultima annotazione
ancora: l’indomani quando si tornava da scuola, quasi per tutti,
c’era spesso la sorpresa non affatto gradita: molti giocattoli erano
spariti perchè Mal comune mezzo gaudio. Eravamo abituati a giocare anche con nulla. Con un po’ di fantasia, inventavamo qualche altro gioco con non aveva bisogno di qualcosa da comperare o dei giocattoli avuti in regalo. Per quelli portati via dalla Befana, arrivederci alla prossima Epifania, se nel frattempo non avessimo scoperto la verità sulla bellissima invenzione della Befana. Lillo
|