10.01.08
Una preghiera
La mia bocca ha pronunciato e pronuncerà, migliaia di volte e nelle lingue che mi sono intime, il “padre
nostro”, ma io non lo capisco che in parte.
Questa mattina, quella del primo giorno di luglio del 1969, voglio tentare una preghiera che sia personale, non ereditata.
So che si tratta di un’impresa che esige una sincerità quasi sovrumana.
È evidente, per cominciare, che mi è vietato chiedere.
Chiedere che non si offuschi del tutto la mia vista sarebbe pazzia;
so di migliaia di persone che vedono e non sono per questo più felici, giuste e sapienti. Il processo del tempo è una trama di effetti e di cause, di modo che chiedere qualsiasi mercede, per infima che sia, è chiedere che si rompa un anello di quella trama di ferro, è chiedere che si sia già rotto.
Nessuno merita un tale miracolo.
Non posso supplicare che i miei errori mi siano perdonati;
il perdono è un atto di altri e io soltanto posso salvarmi.
Il perdono purifica l’offeso, non l’offensore, col quale il perdono non ha quasi relazione. La libertà del mio arbitrio è forse illusoria, ma posso dare o sognare che do. Posso dare il coraggio, che non ho; posso dare la speranza, che in me non alberga, posso insegnare la volontà d’imparare quel che so appena o che intravedo.
Voglio essere ricordato meno come poeta che come amico;
che qualcuno ripeta una cadenza di Dumbar o di Frost o dell’uomo che vide nella mezzanotte l’albero che sanguina, la Croce, e pensi che per la prima volta l’udì dalle mie labbra. Il resto non m’importa; spero che l’oblio non tardi.
Ignoriamo i disegni dell’universo, ma sappiamo che ragionare con lucidità e operare con giustizia è aiutare quei disegni, che non ci saranno rivelati.
Voglio morire del tutto; voglio morire con questo compagno, il mio corpo.
J. L. Borges |