26.06.10 GIUGNO 2010 Francesco FELICI E’ pomeriggio, un assolato pomeriggio di fine Giugno. Le scuole sono terminate da qualche giorno e si gusta il “dolce far niente dello studente”. Il Bar è il rifugio quotidiano. “Checco, Checco, guarda che schifo! C’è una mosca nel gelato!” era la voce di Nuzzo (Salvatore) Gnisci o, forse, di Antonio Mezzopra che protestava per la rivoltante sorpresa. “Capirai! Dentro a ‘n gelato da cinquanta (lire) che te credei de trovacce… un pollastro?” era la voce inconfondibile di Checco Rocchietto che cercava di sdrammatizzare, in modo ironico, l’inconveniente. Risata generale degli avventori presenti, il cono gelato finiva nel cestino dopo inevitabile sostituzione e tutto tornava alla monotonia quotidiana. Checco era un soggetto raro: piccola statura, fare circospetto, sguardo penetrante, risposta sempre pronta e alla costante ricerca di qualcuno da “coglionare”. Ora, poiché “chi la fa, l’aspetti!”, era sempre ossessionato dall’idea di poter essere lui il “coglionato del giorno”. Checco “Rocchietto”, anzi Francesco Felici nasce a Vignanello il 23.12.1908 da Giuseppe (1881 – 1942) e da Argia Calvanelli (1881 – 1969) Argia fu un personaggio indimenticabile per il suo modo di fare e per il suo modo di esternare, in maniera “ruspante” e sintetica, concetti essenziali di vita quotidiana. Famosissimo un incisivo pensiero, diventato poi un comune modo di dire, che così recitava: “a Vignanello nun ce s’è pposato mai un ucello bbono!”. Non fu mai dato sapere quale valore Argia avesse voluto attribuire alla locuzione “ucello bono”: se “all’ucello” in senso figurato usato nel dialetto, per riassumere le caratteristiche di un personaggio poco raccomandabile e spregiudicato; se “all’ucello” in senso ornitologico di “uccello” come termine italiano per indicare un pennuto animale commestibile; se “all’ucello” in senso equivoco di “ucello” come volgare termine dialettale. Nel citare il detto si giocava comunque sull’equivoco che il termine “ucello” poteva generare ed Argia di questo ne rideva a crepapelle! Avremo occasione di parlare ancora del personaggio Argia perché viveva nel Bar di proprietà e perché non potrei fare altrimenti se la mia intenzione rimane quella di farVi conoscere il figlio Francesco, anzi Checco, come urlando lo chiamava la madre. Il “Caffè Felici” (l’insegna riportava semplicemente “Caffè”) aveva due affacci su Corso Matteotti: ai numeri civici 7 (porta abitualmente chiusa) e 9 (accesso al Bar); precedeva di pochissimo il “Bar Ristorante Roma” situato al civico 13 ma la cosa non deve scandalizzare: da Piazza della Repubblica al termine del Corso Matteotti si potevano contare ben sei attività commerciali pressoché identiche (Bar Moderno, Bar dello Sport, Circolo ACLI, Bar Latteria Bracci ed i due Bar già citati). I locali del Caffè Felici erano molto spartani e molto poco spaziosi: il rettangolare vano d’ingresso era formato da una lunga parete, occupata sulla destra, quasi per intero dal bancone di servizio, munito di macchina per gelato e macchina per caffè espresso “Faema”; la parete di fondo, stretta come quella d’ingresso, aveva una piccola apertura, che consentiva l’accesso ad un ridottissimo spazio che fungeva da magazzino-ripostiglio-dispensa. La parete di sinistra aveva due aperture, una all’inizio ed una alla fine, per l’accesso al secondo vano, anch’esso rettangolare. Nel primo vano, tra le due aperture, erano collocati tre o quattro tavoli rotondi utilizzati dagli avventori più assidui che trascorrevano gran parte del pomeriggio e della sera (anche dopo cena), dilettandosi al giuoco delle carte: il “tre sette”, la “briscola”, lo “scopone scientifico”, la “ruspa”, la “scopa” o la “scopa doppia” avevano come posta in palio la cosiddetta “consumazione” (un caffè, un gelato o una bibita pagata dai perdenti ai vincitori), il “ramino”, la “scala quaranta”, la “petrangola”, il “faraone” consentivano, invece, delle poste (vincite o perdite) anche in danaro. Il primo tavolo che si incontrava sulla sinistra entrando, era riservato: costituiva la postazione permanente di Argia che, con meticolosa attenzione, controllava il corretto pagamento delle “consumazioni” perse ai tavolo da giuoco. Argia aveva un’importantissima funzione: era il tesoriere dell’intera azienda. Ogni tanto si spostava dietro al bancone, apriva il cassetto degli incassi e prelevava tutta la carta-moneta per custodirla, in maniera più sicura, “in seno” (nel vero senso della parola!) avvolta in un fazzolettone di quelli che le donne utilizzavano, all’epoca, per fare la spesa (“i’ ffazzoletto ‘e ‘a spesa” di non lontana memoria!). Il cambio di banconote di taglio maggiore, che Checco ogni tanto chiedeva, costituiva una vera e propria scena teatrale eduardiana: Argia slacciava i bottoni che chiudevano il suo abito fino al di sotto del collo, immergeva una mano all’interno del suo, presuppongo, reggiseno ed estraeva questo enorme fazzoletto disordinatamente arrotolato, lo disponeva sul tavolo che aveva di fronte ed incominciava a svolgerlo fino alla comparsa dei primi fogli di banconote da £. 1.000, da £. 5.000 o £. 10.000. L’occasione era particolarmente ghiotta per Cesarino Danimarca (Cesare Stefani) e Giustino Troili, i quali, distraendo Argia, riuscivano ad appropriarsi di parte di quel denaro. I soldi venivano regolarmente restituiti ma dopo estenuanti schermaglie, urla e male parole che Argia rivolgeva ai due giocherelloni avventori. Era un fatto talmente ricorrente che, l’intero Caffè lo considerava un rituale accadimento, come lo “sbuffare vapore” della macchina del caffè o la “rituale preparazione” della macchina per il gelato. La specialità del Caffè Felici era, come ripetutamente sosteneva Checco, il gelato al limone. Checco, per la verità, preparava anche il cioccolato e la crema, ma questi ultimi non erano molto pubblicizzati. Una cosa accomunava i tre gusti elaborati con impegno e dedizione: il gelato veniva servito in coni o cestini induriti dall’età ed un po’ scialiti, la cialda ne comprometteva il sapore e li faceva sembrare tutti uguali! Solo Checco apprezzava la superba bontà del “suo prodotto”; vederlo gustare quel gelato al limone era come assistere ad un avvenimento storico. La mimica espressa da Checco era “un inno alla bontà”, tragicamente sfatato dal mediocre gusto realmente espresso (nessuno ebbe mai l’ardire di deludere le aspettative del buon Checco). Ma proseguiamo nella descrizione del secondo ambiente: con le spalle alla porta chiusa su Corso Matteotti si poteva chiaramente osservare il “regolamentare” biliardo all’italiana. Sulla parete di sinistra era presente un segnapunti con specchio, il cassetto per il contenimento delle biglie da giuoco, la rastrelliera delle stecche e, a parte, le due stecche “fuori misura”: la nana e la lunga. La parte finale del locale era occupata da un biliardino o calcio balilla e da due tavoli da giuoco. Una porta finestra situata nella parete di fondo consentiva l’accesso ad un balcone dove erano presenti i servizi (…si fa per dire!) igienici. Questo secondo locale era il tempio del giuoco e della supremazia dei giocatori (di carte, di bigliardino, di bigliardo) del “Caffè ‘e Rocchietto” rispetto a tutti gli altri Bar del paese. Ora, per proseguire nel mio racconto e per dovere di cronaca, è opportuno fare qualche breve precisazione prima di introdurre le prossime argomentazioni. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale (anni ’45 – ’46), in Vignanello c’era un solo Bar che aveva un tavolo da biliardo, era il Bar Moderno di Elvidio Stefani. Il Bar Moderno, signorile, elegante, finemente arredato, era considerato il tempio dei bravi giocatori di “ramino” e degli eccellenti giocatori di biliardo. Il tavolo da biliardo era situato nel fondo del locale d’ingresso, trasversale alla sala ed in corrispondenza dell’attuale banco di mescita (il Bar Moderno era arredato in modo completamente differente dall’attuale disposizione).
Ricordo che ero affascinato da quel tavolo verde, che ritenevo immenso; ottenevo il permesso di intrattenermi ad osservare quella che mio padre definiva una “partita di biliardo”, della quale conoscevo solo qualche regola, mentre lui si intratteneva con altre persone conversando. Il rotolamento di quelle biglie silenziose, il luccichio delle stecche, il flebile rumore caratteristico dei birilli abbattuti, il commento dei giocatori, gli apprezzamenti degli spettatori, il rumore della biglia “in buca”: erano tutte cose che mi facevano perdere la cognizione del tempo ed il momento di rientrare a casa arrivava in baleno. Ricordo perfettamente alcuni personaggi che ammiravo per la disinvoltura nel giuoco: il migliore era Tommaso Tabacchini (1896 – 1966) che riusciva a tenere accese, inavvertitamente, anche tre/quattro sigarette nel corso della partita, sistemate nei diversi posacenere incastonati agli angoli del tavolo da biliardo. Tommaso (foto a lato) era bravissimo, o almeno a me sembrava, e si stizziva visibilmente quando un colpo di stecca non sortiva il risultato dovuto sulla biglia colpita; qualche volta imprecava sottovoce, qualche altra sorrideva soddisfatto. L’altro era Ezio Gnisci, sempre elegantissimo e con un anello al mignolo che me lo faceva immaginare un nobile titolato. Anche Ezio era molto bravo e buon conoscitore del gioco, non si scomponeva mai anche nelle situazioni di gioco irreparabili: il suo accento calabrese ed il suo tono di voce incutevano timore agli avversari ed agli spettatori. Tommaso ed Ezio avevano in comune l’eleganza: nel giuoco Tommaso, nell’abbigliamento Ezio. Li ricordo entrambi con tanto affetto, così come ricordo ancora Amilcare Anselmi, un amico di mio padre; era un grande appassionato del gioco delle carte. Amilcare era anche un appassionato di biliardo, non come giocatore ma come spettatore: assisteva per ore agli interminabili scontri tra le migliori “stecche” del Bar Moderno. Quando arrivavo anch’io, la domenica, mi faceva sedere al suo fianco e mi offriva un gelato. Oltre a Tommaso e Ezio si cementavano in appassionanti scontri al biliardo Odoacre Carosi, ottimo giocatore, e poi Giuseppe Suadoni (“Peppinello ‘a luce”, in quanto capo operaio della ex Società Romana Elettrica), Eugenio Bracci, Giulio Ceccarelli e Ferrante Salvatori (quest’ultimo insuperabile nel giuoco delle carte). Con l’inizio degli anni cinquanta il tavolo da biliardo fece la comparsa in quasi tutti i Bar del paese e con esso crebbero sensibilmente i cultori di tale sport con il risultato che emersero molti altri “campioni” paesani dislocati nei diversi Bar. Anche il Caffè Felici fece tale scelta, sacrificando metà del suo spazio per collocare un regolare Tavolo da biliardo nel suo interno. Ovviamente le capacità di Checco, che amava tale gioco e disponeva di un biliardo quasi personale, furono presto note; di lui si raccontavano imprese quasi impossibili e spesso non vere, ma questo contribuiva a farlo diventare sempre più l’uomo da sfidare e, magari, da battere.
I migliori giocatori di stecca (“60 punti all’italiana”,
“carambola”, “veneziana singola” o “a coppie”, “bazzica a
21 con carta”) e di mano (“boccetta a 24 o Campione indiscusso in tutte le specialità era il piccolo, grande Checco: abbandonava il banco di lavoro per dedicarsi a scontri interminabili con forestieri di ogni altro paese che desideravano sfidarlo al biliardo. Le urla di Argia non servivano a nulla, Checco lasciava la gestione del Caffè alla sorella Giovanna e iniziava una maratona di biliardo interminabile, con la personale descrizione dei suoi colpi da eseguire e le nefaste conseguenze per l’avversario: sembrava di ascoltare una radiocronaca di “novantesimo minuto”. Ovviamente non mancavano tifosi e sostenitori dei due contendenti né mancavano apprezzamenti “coloriti” fra i due avversari.
Il biliardo per Checco era una piacevolissima droga: avrebbe
vissuto di solo biliardo ma, non era stata questa l’unica sua unica
passione! Checco era stato un bravissimo componente della squadra di
calcio del “grande Vignanello”, era ala destra e nel suo ruolo non
aveva rivali in provincia, forse neanche nell’intera Regione. Dal 1930
al 1935 la squadra del Vignanello non aveva rivali nei campionati a cui
partecipava insieme alla Sorianese, l’Ortana, Il campo di calcio era denominato “L’aretta” ed occupava lo spazio che in Via dei Castagni, lato destro, giungeva fino ad un impervio viottolo in discesa, che collegava con Via Talano. Venne rielaborata, all’epoca, anche una canzone che gli italiani avevano dedicato all’Italia, campione del mondo di calcio nel 1934 e poi, ancora, nel 1938: per il Vignanello si ricordava il portiere Sevaggini, i terzini Salvini e Baldinelli, i mediani Chiarini, Chiricozzi e Frezzolini, gli attaccanti Felici, Lelli, Pietrucci, Coda e Suadoni, e poi Bracci, Nisini e tanti bravissimi altri. Presidente era l’amatissimo Enrico Renzi, direttore di banca a Vignanello.
Checco è stato anche un grande amico di uno scrittore e giornalista importante : Giovanni (Nanni) Mosca; ne era talmente amico da essere celebrato da quest’ultimo in un libro nel quale lo scrittore Mosca descrive Vignanello, dove veniva spesso con i genitori a trascorrere i mesi estivi, ed i suoi compagni di giuoco (Salvatore Pugliesi e, per l’appunto, Checco). Giovanni Mosca descrive con nostalgia i giuochi praticati: una sorta di corsa di cavalli disputata da coppie di ragazzi (la coppia Nanni fantino e Checco cavallo era insuperabile) ed un particolare albero, una pianta di castagno dalla forma molto originale e denominato “castagno Apollo” perché considerato, da lui e dai suoi compagni di gioco, un’astronave usata per volare nello spazio… oltre il cielo! Certamente il massimo della bravura di Checco consisteva nella assoluta padronanza del giuoco del biliardo, uno sport che fu per lui motivo di trionfi e di sconfitte memorabili. Mi preme, a questo punto, precisare una differenza essenziale che distingueva i cultori di tale sport: li accomunava la bravura ma li differenziava il carattere. C’era il “giocatore” e c’era “l’artista”: alla prima categoria apparteneva Tommaso, alla seconda il nostro Checco! Le sale da biliardo della provincia erano il campo di confronto con altri cultori di tale sport, per la verità più che la passione per il gioco traspariva la passione per le scommesse su tali scontri. Si giocava a Viterbo, alla Casbah o al Gran Caffè Schenardi, a Bagnaia dove esistevano diversi bravi giocatori, ad Orte, a Civita Castellana, Terni, Orvieto, Montefiascone, Tarquinia, Roma e chissà in quanti altri luoghi di cui non ho conoscenza. Checco era sempre accompagnato da un numero consistente di sostenitori ed anche scommettitori che contavano molte più perdite che vincite. Il motivo? Il motivo era sempre lo stesso: Checco non era fatto per vincere, era fatto per stravincere! Alcune partite che potevano esser vinte con facilità venivano “sciupate” per il culto dell’onnipotenza: Checco si cementava in colpi impossibili che avevano riuscita quasi inesistente e, nel biliardo un colpo mancato da un contendente comporta quasi sempre la vittoria dell’avversario. Ma Checco era così: aveva una vittoria facile con un colpo di “prima”? Bene, lui voleva dimostrare il differente livello di “classe” con un bel colpo a sette sponde, spesso sbagliato, compromettendo l’intera sua serata e quella dei suoi sostenitori. Checco aveva, comunque, un grandissimo carisma e riusciva a far appassionare al gioco del biliardo tutti gli avventori del suo Caffè, insegnava a tutti ciò che sapeva fare con la passione e la dedizione di un insegnante professionista. Le sue lezioni miravano all’essenziale: qualche premessa iniziale e poi si passava subito all’insegnamento dei “fondamentali”. La premessa iniziale era quella di “non confonne ‘a stecca d’i bbigliardo co’ i’ mmanico de i’ zzappone” (testuali parole del maestro Felici!). Successivamente si passava alla descrizione dell’impugnatura della stecca (che doveva essere sicura ma non rigida), quindi al posizionamento della mano d’appoggio sul tavolo da biliardo (indice, medio, anulare e mignolo aperti a ventaglio, con il pollice sormontante l’indice e piegato all’indietro) e relativa altezza (variabile a seconda del tiro da effettuare). Poi si esaminava la posizione che doveva assumere il corpo del giocatore, piegato verso il tavolo, ma né poco né troppo: un colpo non riuscito era imputabile alla pessima posizione del corpo. Ancora veniva argomentato il tipo di colpo da portare alla propria biglia: il punto di impatto della stecca (in alto, al centro, in basso, con effetto a destra o a sinistra) e l’entità d’impatto (lieve, medio o energico).
La poca dimestichezza di Checco con la destra e la sinistra
generava, spesso, delle situazioni clamorosamente comiche. Obiettando
sul colpo il maestro rispondeva semplicemente: “…e
va be’, me so sbagliato !”
Meticolosa era l’attenzione che usava nell’insegnare ad
ingessare la parte terminale della stecca: un’intera lezione era
dedicata a tale compito perché, diceva Checco “…una
stecca bene ingessata è comme una femmina ben truccata, l’effetto che
te fa (e che fa sopre ‘e palle) è essenziale!” Da ultimo ci si istruiva sullo sguardo che, al momento del tiro, doveva essere fermo sul punto in cui doveva essere impattata la biglia avversaria.
Il resto, diceva Checco, era allenamento, gioco continuo “…e anche un po’ di culo nun guaste!” Le lezioni di biliardo avevano sempre la stessa conclusione: Checco si impadroniva di una biglia e diceva: “…e adesso, co’ un tiro manno ‘a palla dentro ‘a saccoccia!” Tirava una biglia che, colpita la sponda opposta, tornava indietro. Checco metteva una mano sul tavolo da biliardo in prossimità della sua posizione di tiro, sulla traiettoria dove correva la biglia; questa saltava la sponda del tavolo da biliardo e finiva nella grande tasca di un verde grembiule che Checco indossava abitualmente in servizio! Crebbero nel suo Caffè bravi giocatori di biliardo: Antonio Mezzopra, Ideale (Lillo) Pacelli (nella foto: a destra di Checco), Mario Stefani, Salvatore (Nuzzo) Gnisci, Cesare Stefani (Cesarino), Giustino Troili, Pietro (Pierino) Stefani, Tommaso Gionfra (“boccettista” mancino che all’acchitto riusciva quasi sempre a realizzare 10 punti abbattendo i 5 birilli presenti sul tavolo), Guido Tabacchini, Geo Gazzarini, Cesare Ferrazza, Biagio Ziaco, Franco Grattarola, Mario Tusoni, Giammario Ferri e tanti, tanti altri. Un personaggio che frequentava spesso il Caffè Felici era il prof. Guido Graziani, appassionato giocatore di “boccetta”: aveva una mimica straordinaria, lanciava una biglia e poi, muovendosi con il corpo, cercava di guidarla in quella che doveva essere la sua intenzionale traiettoria. Altra attività esercitata all’interno del Caffè Felici era il “calcio balilla” (bigliardino). In questo giuoco Checco era un profano ma non perdeva la sua abitudine di “salire in cattedra”, suggerendo strategie di giuoco e modalità di esecuzione nei diversi tiri in porta.
C’erano dei giocatori insuperabili: molto bravi Franco
Grattarola, Mario Stefani, Biagio Ziaco, Antonio Mezzopra che, mancino,
aveva una “mediana” fantastica. Molto bravi erano anche Geo
Gazzarini e Nuzzo Gnisci. Anche il Circolo ACLI aveva i suoi campioni:
erano il sottoscritto e Loreto Seralessandri. Una volta, per misurare le
nostre capacità, accettammo di scontrarci con i “campioni” del Caffè
Felici; gli avversari erano Franco Grattarola (in difesa) e Mario
Stefani (all’attacco): due colossi in questo sport! Il nostro
schieramento proponeva Loreto in difesa ed il sottoscritto
all’attacco. Le partite avevano in gioco una “posta” di £. 50 per
partita, più il costo dei gettoni utilizzati. Furono necessarie 10
partite per decretare i vincitori: tre partite per noi, tre partite per
loro, tre pareggi e, nel finale Checco era sempre pronto a dimostrare le sue capacità di giocoliere del biliardo: riusciva ad imbucare due biglie nelle buche diagonali con un unico colpo, una biglia entrava in buca diretta e l’altra, carica di effetto rovescio, per il colpo ricevuto dall’alto in basso, retrocedeva dopo l’impatto ed imbucava la seconda buca diagonale; altro colpo era il salto dei birilli che portava come risultato dei punti in suo favore ed il gioco “coperto” per l’avversario; altra variante era “la virgola” che gli consentiva di colpire, di prima, la biglia avversaria completamente coperta dal “boccino”, la sua biglia riceveva un colpo di stecca che aveva un doppio effetto: il lento rotolamento ed il percorso semicircolare che la mandava a colpire la biglia dell’avversario. Checco era molto bravo anche nel gioco delle carte, ma praticava molto poco questo passatempo, non lo amava e solo in mancanza di un “quarto” accettava di cimentarsi a “briscola” o al “tresette”, aveva una memoria eccezionale riusciva a ricordare tutte le carte uscite nel corso della partita. Checco non si era mai sposato, o meglio aveva “sposato” l’idea di convivenza con la madre: nel 1942 perde il padre ancora giovane e l’idea di abbandonare mamma Argia non lo soddisfa, decide di fare l’eterno figlio, la accudisce con amore e la riempie di attenzioni. Al mattino l’accompagna al Caffè, le prepara una enorme tazza di caffè e latte nella quale Argia immerge del pane avanzato il giorno prima (è l’usanza delle donne che hanno vissuto la guerra e che sanno evitare sprechi perché,… non si sa mai!) e lo gusta con grande soddisfazione. Nel pomeriggio Argia resta in casa, è anziana e non riesce più a rimanere per tanto tempo in piedi. Checco continua, anche con l’aiuto della sorella, a far funzionare il suo Caffè, fino al 1969 quando Argia lo lascia definitivamente orfano. Una lapide in memoria della cara Argia è custodita nella cantina di proprietà di Cesare Stefani (Cesarino) in Via Sant’Angelo Alto a Vignanello. Checco continua per un po’ a proseguire la sua attività di barista ma qualche “acciacco” fisico, l’impossibilità di seguire da solo questa attività, lo convincono a lasciare tutto nel momento del raggiungimento dell’età pensionabile. Siamo intorno alla metà degli anni settanta: il Caffè Felici cessa la sua lunga attività e Checco si trasferisce a Roma in casa della sorella. Periodicamente ritorna a Vignanello ma non è più quello di una volta: è sempre più stanco e la sua salute è compromessa. Nel 1987, il 16 di Aprile, Francesco torna definitivamente ad abitare con sua madre e con suo padre: in cielo! Vignanello, li 26 Giugno 2010 in proposito leggi anche:
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